Cronache umbre considera indispensabile una riflessione sul Sistema sanitario regionale per poter guardare al futuro prossimo con estesa cognizione di causa, ovvero con l’attenzione alla comprensibilità diffusa di quello che si scrive e/o si dice. Per questo pubblica in forma di dialogo uno scambio di idee tra persone a vario titolo attente e informate sulle questioni affrontate, già presenti in nella nostra sezione “commenti” (si veda a questo proposito La buro-tecnica del disastro).
Protagonisti di questo dialogo sono Andrea Chioini, giornalista del servizio pubblico radiotelevisivo, e Marcello Catanelli, medico, per anni dirigente regionale dell’area sanitaria e autore (nel 2013) di una bozza di Piano sanitario regionale che non è stata mai portata al vaglio dell’Assemblea legislativa regionale.
Andrea Chioini – La tua esperienza maturata nel comparto salute-sanità della Regione Umbria è distillata nei materiali che stai pubblicando in “Archivio Catanelli Perugia”: gli editoriali del Bollettino Sedes, gli articoli e le elucubrazioni politiche, il Glossario di sanità pubblica; materiali utili per la ricostruzione di uno sguardo capace di portarci oltre l’ubriacatura aziendalista che ha afflitto tutto il Sistema sanitario nazionale (Ssn) negli ultimi tre decenni. Secondo te in quale periodo è iniziata questa svolta che ha chiamato “azienda” sia ospedali che unità sanitarie locali?
Marcello Catanelli – C’è oggi l’esigenza assoluta, anche di fronte alla pandemia di coronavirus, di aprire una nuova stagione riformista, dopo quella degli anni settanta del Novecento, che ha prodotto la Riforma sanitaria, e dopo la stagione, che io chiamo controriformista, degli anni novanta, che ha ridefinito, in senso neoliberista, la sanità pubblica, facendone un bene pubblico a gestione privatistica, con strutture verticistiche e una decisa chiusura alla soggettività sociale. L’obiettivo deve essere quello di rafforzare le competenze e le capacità delle strutture pubbliche, che si sono rivelate fondamentali per contrastare efficacemente la pandemia, nonostante fossero indebolite da politiche decennali di tagli e depotenziamenti.
AC – In una tua “elucubrazione politica” del 16 aprile 2019, Il solo modo, tra l’altro sostenevi che «la sanità pubblica va quindi ripensata e ridefinita, mantenendo però fermo il principio di solidarietà, secondo il quale la salute può essere garantita solo da un grande sforzo solidale che vede interessate e responsabilizzate le persone, le famiglie, i gruppi sociali, le imprese, le istituzioni». Parole che assumono uno spessore ancor più consistente a un anno esatto di distanza, sia per quello ci sta attraversando con l’epidemia Covid 19, sia perché quel tuo scritto usciva a poche ore dallo scatenarsi della vicenda giudiziaria che ha decapitato i vertici politici dell’amministrazione regionale.
MC – Lo scandalo politico chiamato “sanitopoli” in Umbria è stato possibile grazie alla debolezza del Sistema sanitario nazionale, frammentato a livello regionale e snaturato dalla predominanza del potere politico a scapito del potere tecnico e di quello gestionale. Le cosiddette aziende sanitarie che ne sono l’espressione e la rappresentazione, sono fragilissime sul piano democratico, debolissime in quanto a partecipazione effettiva, ma ricchissime di risorse e di consenso politico e sono così una facile preda di carrieristi e ambiziosi, pronti a utilizzare cinicamente amicizie e frequentazioni politiche, favoriti in questo da organigrammi monocratici e incontrollabili, chiusi al merito ma non all’appartenenza politica. E’ questo, sia chiaro, non solo in Umbria ma in tutto il paese.
AC – Con l’80% del bilancio regionale impegnato ogni anno per garantire il funzionamento della sanità le scelte politiche finiscono per venir condizionate pesantemente da quello che accade tra ospedali e usl. Quella del 2019 non è la prima volta che la magistratura si occupa pesantemente dei rapporti tra sanità e politica in Umbria…
MC – Prima di essere una vicenda penale, di cui deve occuparsi la magistratura, la corruzione e il clientelismo sono uno scandalo politico, di cui deve farsi carico, nell’opera di pulizia e di risanamento, la politica, non quella urlata, aggressiva, povera di categorie concettuali e di efficaci strumenti di analisi, volutamente ambigua e inevitabilmente contradittoria, ma una politica ragionata e ragionante, convinta e anche convincente, frutto di una visione d’insieme, consapevole di regole e norme da condividere. Tutto questo vale anche e soprattutto in tempi di pandemia.
AC – Al di là delle vicende giudiziarie che, tra l’altro, meriterebbero, di arrivare all’epilogo del primo grado di giudizio con una maggiore celerità, la consistenza delle risorse economiche destinate alla salute pubblica è tale da renderle più che rilevanti non solo per il welfare ma anche per meccanismi produttivi e industriali di una regione piccola come l’Umbria. Nel tuo articolo, tra l’altro, scrivi che la sanità pubblica «è un bene economico che comprende un sistema complesso di aree fortemente interconnesse tra loro, che va ben al di là degli ospedali, delle aziende sanitarie, delle farmacie, dei professionisti. I sistemi sanitari non forniscono solamente assistenza in caso di malattia, ma sono parte di un sistema economico sociale complessivo, all’interno del quale contribuiscono ad attivare considerevoli effetti distributivi e ridistributivi».
MC – La sanità pubblica, nel suo complesso, non è solo un presidio contro le malattie, per evitare morti evitabili e premature e per garantire una buona qualità di vita, ma è anche una filiera produttiva, ad alta tecnologia, in grado di alimentare ricerca, occupazione e sviluppo, un vero e proprio volano economico, largamente sottovalutato e stimato dai governi succedutisi in questi anni, che lo hanno sempre considerato un centro di costo e non una opportunità anche economica.
AC – Anche a livello locale, (più o meno sottotraccia in quest’epoca, sono i conflitti sulla distribuzione delle risorse a determinare le scelte politiche prese nelle istituzioni rappresentative. Come si fa a cambiare il senso di marcia che ha portato alle “autocrazie” degli amministratori unici di ospedali e usl? Tu hai analizzato questo passaggio dalla “democrazia diffusa” dei comuni che componevano gli organismi politici delle usl in alcuni passaggi de Il solo modo.
MC – Ho parlato di una nuova stagione riformista per cambiare il senso di marcia che ha portato all’adozione del modello aziendalistico non solo in sanità, ma anche nella scuola pubblica, nella Rai e nei beni culturali. Deve esplicitarsi una precisa volontà politica che metta in discussione una organizzazione finalizzata alla sola produzione e con un uomo solo al suo comando, con presunte capacità manageriali, monocrate pressoché assoluto, che non deve rapportarsi ad altri organi collegiali, in un ambito dove non è contemplato nessun bilanciamento di poteri. Gli si chiede velocità nella esecuzione delle scelte dei decisori, messa a profitto dei finanziamenti pubblici essenzialmente per il risparmio e il pareggio del bilancio, utilizzo libero e spregiudicato, al limite dell’arbitrarietà, delle risorse umane. Il bene pubblico non è né può essere una impresa profit, risponde a logiche diverse e lontane, come per esempio la tutela e la garanzia di diritti individuali fondamentali, sanciti dalla Carta costituzionale della Repubblica, come ad esempio il diritto alla salute (art.32) e il diritto allo studio (art.34). Ma è soprattutto l’articolo 2 che riconosce e garantisce i «diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». La gestione privatistica del bene pubblico è in pieno contrasto con tutto questo, perché non solo disattende il mandato costituzionale, ma soprattutto perché nel campo dei diritti umani e sociali non può esserci dipendenza assoluta dalla disponibilità finanziaria e deve esserci accessibilità assoluta, cioè universale. Ne va della stessa natura di comunità, dove tutti sono liberi e uguali, nel campo dei diritti, ma a tutti si chiede «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art.2) e quindi «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» (art.53). Non basta quindi la sola proprietà del bene pubblico da parte dello Stato ma occorre anche la regolazione, il governo e il controllo affidato a soggetti pubblici, una pluralità di competenze e di funzioni, un sistema di poteri e contropoteri, un insieme sicuramente complesso, ma come è complessa la società attuale.
AC – Molte persone si chiedono come ricomporre un quadro evolutivo dell’approccio politico al tema-salute. Utilizzo ancore le tue parole: «Lievito di tutto questo deve essere la partecipazione, la possibilità per i cittadini di acquisire maggiore potere all’interno della comunità, sia tramite un aumento delle informazioni necessarie a indirizzare scelte e decisioni sia attraverso l’acquisizione di maggior peso riguardo alle decisioni riguardanti la vita comunitaria in tutti i suoi aspetti, compresa l’assistenza sociale e sanitaria. E’ il solo modo per sconfiggere corruzione e clientelismo». Utilizzi l’espressione «l’assistenza sociale e sanitaria», due facce della stessa medaglia, ovvero il welfare.
MC – La questione della partecipazione dei cittadini, diretta e indiretta, al governo del bene pubblico, è l’elemento centrale di ogni riforma, degna di questo nome. Se gli appartenenti ad una comunità sono chiamati a rispettare le regole comuni, devono essere chiamati, in modo sostanziale e non formale, a verificare il rispetto e l’efficacia di tale regole ed eventualmente alla modifica delle stesse. Il potere o è di tutti o non è, nella scuola, negli ospedali, nei servizi sociali, nelle università, nei mass media, nella società intera. Altrimenti c’è la democratura.
Ho sentito questo termine, che è una crasi tra democrazia e dittatura, dalla bocca di un direttore generale di una azienda sanitaria, il quale, tra il serio e il faceto, mi voleva convincere che la democrazia, per come la conoscevamo, era superata, improduttiva e inefficiente ed in essa andavano fatte iniezioni di dittatura, per rendere appunto la nostra vita pubblica più incisiva nell’azione e più veloce nelle decisioni.
Non è solo una questione di linguaggio, ma il segno dell’involuzione del nostro sistema politico e sociale, il risultato dell’agire di un pensiero politico, neo autoritario e neo liberista, che si è affermato in Italia a dispetto della sinistra, fuori della sua cultura, ma al di là di essa, favorito dai suoi errori, incoraggiato dalle sue mancanze, legittimato dalla sua marginalità. Ci sono voluti anni di sperimentazione per prefigurare questo esito, un vero laboratorio politico che ha messo a frutto i primi atti del processo: l’elezione diretta dei sindaci e la conseguente marginalità dei consigli comunali; l’aziendalizzazione del Servizio sanitario nazionale con l’instaurazione di monocrazie pressoché assolute; il ricorso sistematico della fiducia ad atti e provvedimenti del governo per fare del Parlamento un organo di ratifica e non di dibattito; la delegittimazione costante della magistratura, per ridimensionarne il ruolo di organo e di potere dello stato in grado di bilanciare il potere esecutivo; la personalizzazione della politica e la trasformazione dei partiti in aziende con un capo e una cerchio di fedelissimi, in grado di riassumere in sé le funzioni di leader, segretario politico, capo del governo; l’utilizzo sistematico, a fini di consenso e di lotta politica, dei mass media, della televisioni in particolare, che da quarto potere si trasformano in sottopotere; il depauperamento progressivo del Fondo sociale, per fare del welfare un intervento pubblico residuale, incapace di garantire solidarietà e inclusione sociale. Tutto questo o non è stato contrastato o è stato contrastato malamente, addirittura condiviso, anche da chi ne subisce oggi pesantemente le conseguenze. È il momento di farlo, di agitare le coscienze, di reagire e contrattaccare, aggregare i nuclei di resistenza, elaborare e praticare momenti reali di democrazia.