Quello tra il ’70 e l’80 è un decennio di svolta per l’Umbria. Tra il 1970 e il 1975 si apre nel Partito comunista un lacerante scontro politico destinato ad avere ripercussioni e condizionamenti per i decenni a venire sul partito stesso e di conseguenza, sui governi e sulle istituzioni umbre. Il 1970 è l’anno delle prime elezioni regionali. Il Pci è tutt’altro che in crisi. Pur con qualche impaccio, aveva tenuto sostanzialmente botta nel ’68 studentesco, era stato protagonista dell’autunno caldo e, come principale beneficiario delle lotte e dell’egemonia operaie, godeva di un solido e crescente consenso popolare.
Il conflitto parte da Perugia. Alle elezioni comunali, che si volgono contestualmente a quelle regionali (la legislatura appena conclusa, nel capoluogo umbro, era stata prorogata di qualche anno rispetto alla scadenza che avrebbe dovuto avere), il Pci parte sulle ali di un grande entusiasmo e, come si vedrà, di una ben riposta fiducia. L’obiettivo dichiarato è quello di interrompere la tradizione del sindaco socialista ed eleggerne, per la prima volta, uno comunista con l’idea di imprimere una svolta politica a quella che, in precedenza, era stata una gestione prevalentemente amministrativa. A questo scopo viene candidato Ilvano Rasimelli, ingegnere, partigiano e dirigente di partito, figura conosciuta e apprezzata in città anche da ceti borghesi, amico personale di Pietro Ingrao. La Giunta di centro-sinistra, Dc-Psi che il Pci sfida, si presenta al voto con un totale fallimento politico e amministrativo, travolta dai debiti procurati al Comune e screditata nella pubblica opinione. Ilvano usciva da una brillante esperienza come presidente della Provincia, dove aveva guidato e praticato (insieme al suo amico psichiatra Carlo Manuali) la chiusura del manicomio.
Le elezioni sia comunali che regionali si concludono con un trionfo del Pci. Il risultato migliore che, anni più tardi, fece dire al segretario regionale Gino Galli, «se incontri due persone per strada, una delle due è comunista», fu conseguito, con più del 45% dei voti, a Perugia. La lista di Perugia era stata una lista di qualità. Insieme a Ilvano risultarono eletti mio padre che godeva di una straordinaria popolarità ed era prossimo alla scadenza del mandato parlamentare, Fabio Ciuffini, ingegnere, valente tecnico, amico di Rasimelli, il sopracitato Carlo Manuali, Ettore Levi, che sarà poi capogruppo, e alcuni operai della Perugina, dirigenti politici e sindacali che, insieme ad altri, avevano dato vita ad una delle più avanzate esperienze di lotta di fabbrica in Italia. Ricordo come fosse oggi la chiusura di quella campagna elettorale con il comizio di Rasimelli in una Piazza della Repubblica stracolma, tra bandiere rosse e un tripudio di folla entusiasta. Ilvano si rivolse con una espressione immaginifica a Fiandrini, netturbino comunale, conosciuto segretario della sezione di Santa Sabina indicando il selciato pieno di santini democristiani. «Compagno Fiandrini, compagni scopini, ripulite questa piazza della nostra città».
Perugia è presa. Ilvano e i comunisti perugini scaldano i motori. Ma è proprio qui che avviene l’intoppo. In una trattativa romana col Psi che racconta nel suo libro “La mia Umbria”, il segretario regionale Settimio Gambuli è costretto a subire o decide di scegliere, non ricordo bene, la presidenza della Regione al posto dell’incarico di sindaco di Perugia che sarebbe tornato ai socialisti nella persona di Mario Caraffini, bravo e onesto uomo ma del tutto inadeguato a quell’incarico. Costui, persona, ripeto bravissima, era destinato a svolgere una funzione di rappresentanza, con discorsi scritti dal capo dell’ufficio stampa, Sabatini, socialista come lui. Il primo presidente della Regione sarebbe stato Pietro Conti. La sua candidatura a questo incarico aveva causato una crisetta con i compagni ternani che avrebbero preferito Ezio Ottaviani, ottimo amministratore che ho poco conosciuto ma che mi colpì per la sua pacatezza e il suo apparente equilibrio. Pietro Conti era stato un giovane quadro operaio di Spoleto assurto al ruolo di segretario della Federazione e tornato, dopo una grave malattia, come segretario della Cgil.
Dopo l’accordo romano si scatena l’ira di Rasimelli e di buona parte del partito perugino che si sente nuovamente umiliato e sacrificato in una trattativa di vertice che non teneva conto dei rapporti di forza reali. Il conflitto che ne seguì e col quale furono messi sotto accusa gli apicali regionale e federale, Gambuli e Bruno Nicchi, può sembrare di natura personale (in una certa misura lo era pure) ma, come allora accadeva, aveva un fondamento prevalentemente politico. Si trattava di scegliere tra Comune e Regione. Quest’ultima era un ente tutto nuovo, con potestà legislative, che stava nascendo tra grandi aspettative e attese di tutta l’Umbria, non solo di un singolo, pur importante, Comune. E poi, sullo sfondo, viveva la dialettica (o, più realisticamente, lo scontro) tra il partito ortodosso, Berlinguer e amendoliani al seguito, con Ingrao. L’Umbria era una regione (considerata) ingraiana. I leader ingraiani erano Rasimelli e Francesco Mandarini (eletto in Regione) a Perugia e Alberto Provantini (anche lui neo consigliere e poi assessore regionale) a Terni. Conti poteva essere considerato un berlingueriano così come, credo, Germano Marri eletto per la prima volta e destinato di lì a pochi anni a subentrare a Conti. Ma andiamo con ordine. Ilvano rifiuta di fare il vicesindaco, poltrona che fu assegnata a Ciuffini, con alla fine ottimi risultati per la verità, e non volle nemmeno fare il capogruppo, ruolo che venne assegnato a Ettore Levi, persona bravissima, ma così mite in quella gabbia di leoni da sembrarmi un vaso di coccio tra tanti di ferro.
A questo primo strappo se ne aggiunge un secondo, quello che, nel 1976, costringe alle dimissioni, dalla presidenza della Regione, Pietro Conti. Nel periodo di turbolenza precedente, si erano registrate le dimissioni di Nicchi e Gambuli dai rispettivi incarichi di segretario federale e regionale (1973), sostituiti da Mandarini e Galli, il vignettista Gal, rientrato a Perugia dopo l’esperienza alla Propaganda in via delle Botteghe Oscure. A Conti la maggioranza del gruppo dirigente, ma soprattutto gli ingraiani, imputano un eccesso di potere e di pratiche decisioniste. Anche in questo caso il fondo dello scontro è politico. Si confrontano, mi pare, due visioni, quella arrembante di Conti che punta ad allargare l’influenza del Pci nelle istituzioni e nei luoghi del potere in Umbria, rompendo un patto “consociativo” storicamente inveterato con la Dc, e quelle del resto del gruppo dirigente che riteneva questa strategia pericolosa e foriera di esiti negativi per lo stesso Pci e la sinistra. Conti era un quadro capace (uno dei migliori prodotti dall’Umbria) e aveva un modo di fare politica spregiudicato e ambizioso. Uno dei primi atti di governo della Regione fu la riformulazione degli orari dei negozi che scatenò la protesta dei commercianti. Conti ne approfittò per promuovere la Confesercenti, l’organizzazione dei commercianti di sinistra, contrapposta alla debordante, democristiana, Confcommercio. Ne sa qualcosa Alberto Giovagnoni, allora responsabile della sezione ceti medi nella Federazione di Perugia, che fu chiamato da Conti e incaricato di far convocare alla Confesercenti una assemblea generale dei commercianti a cui avrebbe preso parte il presidente della Regione. Alberto si ritrovò una Sala dei Notari pienissima. Conti fece a lungo aspettare i suoi interlocutori, poi si presentò e, dopo avere ascoltato un solo intervento di uno di loro, prese la parola e si limitò a dire: «Avete ragione, domani convoco la Giunta e cambio l’orario in base alle vostre richieste». Meno fortunata fu la vicenda dell’Aci, che Conti volle conquistare sperimentando l’alleanza con un esponente della borghesia perugina progressista, l’avvocato Casare Maori, che fini con l’arresto di Maori stesso, brava e onesta persona, spettacolarmente voluto, in Corso Vannucci, dagli avversari democristiani e borghesi dell’operazione. Quella che Conti chiamava una congiura dei suoi compagni (così la definì anche con me al XVI Congresso del 1983, quello dello “strappo”, a Milano, dove fui delegato cossuttiano, uno dei sette matti o coraggiosi, su 1100 delegati, che votarono contro la relazione di Berlinguer).
Conti mi disse (secondo me a torto) che anche mio padre aveva partecipato alla congiura. Egli fu deposto da un’alleanza tra gli ingraiani, Rasimelli e Mandarini con il partito ortodosso, rappresentato da Germano Marri, quest’ultimo destinato a sostituirlo come presidente. Dopo un periodo di ottima convivenza e stretta amicizia tra Rasimelli e Mandarini da una parte e Marri dall’altra, vi fu una fragorosa rottura che non si ricomporrà più. Da quel momento vedono la luce e si costituiranno due componenti o correnti, mandariniani e marriani, non totalmente sovrapponibili alle divisioni nazionali (Claudio Carnieri, ingraiano doc, prima segretario regionale poi presidente della Regione, sarà annoverato tra gli alleati di Marri) che informeranno la dialettica politica del partito nei decenni successivi, con una incredibile capacità di ereditarietà e durata. Non so se sbaglio ma queste aggregazioni si fondavano su affinità culturali, simpatia e amicizia personali che conducevano a scelte politiche comuni. Accanto a queste due frazioni, anche in Umbria con Alfio Caponi e più tardi Mario Bartolini, riveleranno formalmente la loro esistenza i cossuttiani filosovietici (mi si consenta di dire i più idealisti di tutti) destinati, dopo lo scioglimento del Partito e con nuovo gruppo dirigente, il sottoscritto, Katia Bellillo e Pier Luigi Neri, a divenire l’ossatura del Partito della Rifondazione comunista. Ma questa è un’altra storia.