A guardarla tutta insieme, è come se in Umbria dal 1991 al 2019 fossero sorte una nuova Città di Castello e una nuova Spoleto: 70.184 residenti in più (tabella 1), poco meno di quelli che sommavano le due cittadine all’alba degli anni novanta del Novecento. A guardarla tutta insieme però si perdono le sfumature, che tanto sfumature non sono, e che raccontano di uno sviluppo diseguale che è una questione di sistema.
Questione di sistema significa che la disuguaglianza la puoi osservare da molti angoli di prospettiva, il rapporto demografico tra diverse aree è uno di questi. E genera diversi effetti, la disuguaglianza. Quindi per tentare di alleviarla occorrerebbe agire diverse leve collegate tra loro. Il condizionale è d’uopo perché – prima domanda da un milione di euro – c’è davvero qualcuno oggi a cui interessi alleviarle le disuguaglianze? È lecito dubitarne, vista l’assenza ormai remota della parola disuguaglianza dal dibattito pubblico. E – seconda domanda più o meno dello stesso valore della prima – ammesso che questo qualcuno ci sia, è cosciente della natura sistemica del problema? Legittimo essere scettici anche su questo, poiché nei decenni che abbiamo alle spalle sono state perseguite politiche inefficaci e a volte dannose, come tenteremo di vedere. E i nuovi arrivati, quelli che si sono presi la regione dopo decenni di denunce di regime rosso, non è che mostrino tanta consapevolezza in merito, e tenteremo di vedere anche questo.
Tabella 1
Dove si cresce
I settantamila e rotti residenti in più significano una crescita dell’8,6 per cento rispetto agli 811.831 abitanti del 1991: oggi siamo a 882.015, dice l’Istat. Ora: i comuni in Umbria sono 92, ma i due terzi di quella crescita riguardano una galassia compatta di appena otto comuni che ruota attorno a un sole costituito dal binomio Perugia-Corciano. Solo in questa conurbazione di cui non si riconoscono più i confini, calpestati ormai dai capannoni dell’immensa area commerciale che salda i due comuni, i residenti sono cresciuti di oltre 29 mila unità (il 42 per cento del totale dell’aumento 1991-2019). Se ai due soli si aggiungono i satelliti, cioè quei comuni che messi insieme costituiscono una direttrice sud est-nord ovest che passa per Assisi, Bastia Umbra, Deruta, Torgiano, Bettona e Magione, si arriva a un aumento di 46.649 residenti, e siamo oltre il 66 per cento della crescita totale (tabella 2). Eccola, la top eight. La direttrice poi prosegue fino al lago Trasimeno con Passignano e Castiglione, che sommati hanno visto un aumento di oltre 5 mila residenti.
Concentrazione
Assomiglia più a un processo di concentrazione che di semplice crescita demografica. Ricorda un po’ il percorso che per un decennio ha accompagnato la morte dei piccoli cinema nei centri storici a vantaggio delle multisale di periferia; e il fatto che nel cuore commerciale della conurbazione Perugia-Corciano, fulcro della concentrazione, ci sia proprio una multisala è una metafora suggestiva in questo senso. Nel 1991 i primi dieci comuni per residenti avevano in tutto 495.398 abitanti, oggi ne hanno 534.239 (+7,8%). Dei primi dieci comuni per popolazione nel 1991, solo gli ultimi tre hanno perso residenti (tabelle 3 e 4). Al contrario, nel 1991 i centri meno popolati avevano un totale di 5.919 abitanti, ora ne hanno 5.073 (-14%) e solo tre di essi hanno oggi più abitanti che allora, gli altri sette hanno subìto lo spopolamento (tabelle 5 e 6). Ancora: l’11,5 per cento dell’aumento di popolazione ha riguardato la provincia di Perugia, mentre in quella di Terni i residenti sono aumentati dell’1,2 per cento. Il livello di concentrazione è dato anche da un altro indicatore: dei 92 comuni dell’Umbria, nel periodo considerato, 37 hanno perso abitanti 27 ne hanno guadagnati ma in misura minore rispetto alla media regionale, e solo 28 hanno aumentato i residenti superando la media.
Dove si cala
Dei dieci comuni che hanno perso più popolazione, sei si trovano in Valnerina: Poggiodomo, Preci, Polino, Sellano, Vallo di Nera, Monteleone di Spoleto (la Valnerina conta 14 comuni in tutto). Nove di essi ricadono nelle cosidette aree interne (tra poco vedremo cosa sono): i sei della Valnerina, e poi Parrano (area interna Orvietano), Pietralunga e Scheggia-Pascelupo (area interna nord est fascia appenninica). E qui si cominciano a misurare un po’ di cose. Se si guarda la cartina dell’Umbria dopo aver colorato i comuni con diverse tonalità a seconda se abbiano aumentato o diminuito residenti – come abbiamo fatto nella mappa interattiva che potete navigare qui sotto – si ottiene un cuore interno vitale che si va spompando man mano che ci si avvicina ai confini orientali e occidentali. Non solo: l’aumento di residenti si concentra a ridosso dei principali assi viari (E45, ss75 e raccordo Perugia-Bettolle, col capoluogo a fare da crocevia), in un processo che ricorda quello che avveniva nell’antichità con i fiumi. Solo che nei fiumi scorreva acqua, cioè vita, mentre gli assi viari trasportano umani, in genere uno a uno all’interno di carrozzerie motorizzate che potrebbero trasportarne molti di più, che sfrecciano producendo inquinamento, sempre che non siano costretti ad andare a passo d’uomo perché hanno intasato le carreggiate.
Lo sviluppo trainato dalle auto
Lo sviluppo demografico pare come trainato anch’esso – come quello urbanistico e di autentica modificazione del paesaggio – dall’industria automobilistica: più strade, più auto, più residenti. Quando si continuano ad ascoltare i ritornelli sulla necessità di più infrastrutture, laddove infrastrutture è inteso come più strade, occorrerebbe guardarsi indietro, insomma, e capire cosa è successo e sta succedendo in questa regione dove sembra di vivere un eterno presente in cui il passato non conta e il futuro è avvolto in una nebulosa lontana, inimmaginabile, essendo il presente immodificabile. E dove si continua a parlare per slogan, o ritornelli, sganciati dal reale.
La questione delle aree interne
Le aree interne, dicevamo. Sono quelle più penalizzate dallo spopolamento. La Valnerina, squassata anche dai terremoti, che hanno sicuramente influito, ha perso il 6,8 per cento dei residenti. La fascia appenninica a nord est della regione ne ha guadagnati, ma assai al di sotto della media regionale (+1,6 per cento contro l’8,6). La fascia dell’Orvietano, va sostanzialmente in pari.
Già, ma che significa aree interne. Si tratta di «centri di piccole dimensioni, distanti dai maggiori poli di attrazione e di offerta dei servizi essenziali, assai diversificati al loro interno e con forte potenziale di attrazione», si legge nelle pagine del sito della Regione a esse dedicate. Sono oggetto di una specifica misura nazionale perché c’è la consapevolezza acquisita che spopolamento significa depauperamento territoriale, di capitale umano, di presidio e di sicurezza. Una perdita sotto vari punti di vista, insomma. «Tra i criteri, uniformi per tutti i comuni italiani, utilizzati per “mappare/classificare” le aree interne – informa il sito della Regione – è contemplata l’individuazione dei Centri di offerta di servizi, cioè un comune o un aggregato di comuni confinanti in grado di offrire simultaneamente tutta l’offerta scolastica secondaria, la presenza di almeno un ospedale sede di DEA di I livello (Pronto soccorso, ndr) e di almeno una stazione ferroviaria di categoria Silver (impianti medio-piccoli)». A seconda della distanza da questi servizi le aree vengono classificate, e per esse vengono predisposti misure e finanziamenti per colmare le lacune. Ad esempio, nel ciclo di programmazione 2014-2020 dell’Ue, per l’Umbria sono stati messi a bando 5,8 milioni.
Servizi (e uguaglianza)
Perché all’inizio abbiamo tirato fuori la questione dell’uguaglianza? Perché è evidente che la questione delle aree interne, che sono quelle che si vanno spopolando ormai da decenni, pone questioni che oltre che di politica del territorio sono anche di uguaglianza. Intanto, è il caso di rilevare che sei dei dieci comuni che si sono spopolati di più negli ultimi 28 anni figurano anche nella top ten dei comuni con meno reddito imponibile per contribuente (tabelle 7 e 8).
Quindi c’è in prima battuta una questione di ricchezza economica, legata alla questione dello spopolamento. E poi, più in generale, non è propriamente la stessa cosa nascere oggi a Poggiodomo o a Perugia, in termini di servizi e opportunità. E per evitare che la spirale porti sempre più a concentrazioni lungo le arterie stradali, rendendo invivibili alcune aree e abbandonate altre, occorrerebbe mettere mano a questioni di sistema. Che non sono, l’attrattività di capitali, la questione del turismo, la possibilità per gli imprenditori di investire, come si sente ripetere nei ritornelli stanchi e vuoti che riecheggiano a destra e sinistra come dischi rotti senza avere alcun collegamento con la realtà. La questione è di servizi per le persone, per farcele vivere decentemente nei territori, evitando di farle sentire periferia. Una volta che si garantisce un presidio decente e dotato di servizi, poi l’economia si muove. Parrebbe un ragionamento semplice, invece lo si vede fare sempre al contrario: prima l’economia, poi le persone; ed ecco dove siamo arrivati. La questione dei servizi, si badi, non è la fissazione di un giornalista abituato a mettere le persone prima del profitto, ma una faccenda di programmazione strategica europea e nazionale, almeno a parole, come si è visto sopra. E la questione dei servizi ci aiuta anche a definire una griglia per misurare le politiche fatte e quelle a venire.
Passato e futuro
Scuola, sanità e trasporti ferroviari sono le tre priorità strategiche per le aree interne, come si è visto. A partire da questo si può tentare una prima valutazione. E si può anche anticipare che se c’è da fare qualcosa, è capovolgere la prospettiva che si segue da decenni, sia a livello locale che nazionale. Per quanto riguarda la scuola, ad esempio, l’Istat ci informa che gli iscritti dall’infanzia alla secondaria di secondo grado sono aumentati dal 2012 a oggi del 2,7 per cento, mentre il corpo docente è cresciuto solo dell’1 per cento. Se si passa alla sanità e ai presidi ospedalieri, di taglio in taglio in Umbria si è passati dagli 11 ospedali del 1997 ai dieci di vent’anni dopo, con una contestuale diminuzione di oltre mille posti letto. Il disinvestimento come politica, si direbbe, al di là dei ritornelli. Sul trasporto ferroviario il discorso è analogo, e qui si misura ancora meglio quali sono state le coordinate dello sviluppo cui si faceva riferimento prima: strade, strade, strade, e macchine, macchine, macchine. Le stazioni attive in Umbria sono oggi 36. Ma in tutto il territorio regionale di stazioni ce ne sono, o ce ne sono state, 85. Si tratta di numeri che la dicono lunga su come i piccoli centri siano stati via via disconnessi dai servizi e di come si sia incentivata una privatizzazione del trasporto che ha pesato sui bilanci individuali in termini di costi e su quello ambientale in termini di inquinamento. Sono state soppresse stazioni che servivano Cannara, Baschi o Città della Pieve, per dire, tagliando fuori dal servizio, solo con questa misura, oltre 14 mila persone. A partire dal giorno di Natale del 2017 sono state chiuse tutte quelle della Ferrovia centrale umbra in attesa di «lavori di ammodernamento della linea» che non si sa bene quando arriveranno. Nel corso dei decenni la Spoleto-Norcia che serviva Matrignano, Biselli o Nortosce, per dire, è diventata una pista ciclabile dopo anni di abbandono. La Arezzo-Fossato di Vico, che serviva Gubbio, Branca, Padule o Monte Corona non è stata più ripristinata da quando venne bombardata dagli alleati durante la seconda guerra mondiale. A vedere quei nomi di centri piccoli e piccolissimi che un tempo avevano un loro servizio e a constatare che oggi neanche un posto come Deruta ha una sua stazione, sorgono interrogativi su quello che è stato il senso della parola sviluppo.
E il futuro, come sarà? Se scuola e sanità potrebbero invertire tendenza a causa del covid che le ha rimesse al centro dell’agenda, sui trasporti non c’è da stare sereni. L’assessore regionale ai Trasporti, Enrico Melasecche insediatosi in quota Lega in seguito alla vittoria della destra nell’ottobre 2019, in una dichiarazione dello scorso 22 gennaio ha fatto un capolavoro di capriole, pur di non parlare di tagli ma facendo capire che la direzione è quella. Eccone alcuni stralci: «L’Umbria se vuol riprendere a correre non può più permettersi l’attuale isolamento, ma deve affrontare con coraggio i vari problemi irrisolti a cominciare da quelli strutturali, al collegamento veloce rispetto agli “hub” ferroviari di Roma e Firenze, migliore rimodulazione dei servizi, la eliminazione di sprechi e di eventuali corse inutili nei casi in cui non c’è un’utenza minimamente adeguata ai costi che l’intera collettività regionale è costretta a sopportare. (…) Di certo si impongono una serie di decisioni coraggiose e responsabili che coinvolgono tutti gli attori di questo settore, dalla stessa Regione agli enti locali, dalle aziende interessate al servizio, ai sindacati, ai singoli lavoratori, a tutti gli umbri, nessuno escluso, perché un sistema di trasporti moderno costituisce la base per qualsiasi politica volta ad una maggiore attrattività, alla ripresa della economia ed al rilancio ed alla promozione di tutto il territorio regionale». Quindi: la priorità non è offrire servizi a chi non ne ha, ma raggiungere gli hub di Roma e Firenze, già piuttosto ben collegati. Poi: un sistema di trasporti moderno deve tagliare, non arricchire l’offerta, perché decisioni coraggiose, tradotto dal politichese significa tagli. Infine: la priorità, ancora, non sono i servizi per le persone, ma la ripresa della economia, il rilancio e la promozione di tutto il territorio regionale, larga parte del quale però rimane scoperto da servizi di pubblica utilità perché così comanda la religione delle razionalizzazioni. Una capriola che qualcuno più prosaicamente avfrebbe definito una supercazzola. Una capriola in senso contrario a quello che si dovrebbe fare per le aree interne, che abbisognano di servizi, e che l’assessore non a caso non nomina preferendo il ritornello delle parole altisonanti – hub, attrattività, ripresa della economia – che nascondono il vuoto di futuro. Non lo diciamo per mettere l’assessore nel mirino, ma perché con quelle parole egli dà forma a ciò che non dovrebbe essere, ripercorre strade vecchissime e infruttuose, peraltro già ripetutamente battute, altro che alternanza tra destra e sinistra. Che rappresentano esattamente quello che non serve, se si punta all’uguaglianza e al benessere delle persone, perché lo spopolamento e l’eccessivo popolamento ci parlano di questo: di uguaglianza, e della necessità di cambiare rotta.