Laurence Douglas Fink, Mortimer J. Buckley e Ronard P. O’Hanley sono tre signori statunitensi i cui nomi probabilmente non diranno molto alla maggior parte delle persone che si stanno imbattendo in questo articolo. Anche le informazioni in rete su di loro sono relativamente scarse se paragonate al potere che i tre effettivamente detengono. Digitando i nomi su Google, si ottengono rispettivamente 2,6 e 1,6 milioni di risultati per i primi due e appena 45 mila per il terzo. Per capire le proporzioni, la ricerca “Joe Biden” restituisce oltre 482 milioni di risultati, quella della stringa “Mario Draghi” oltre 29 milioni, e pure le richieste di informazioni su personaggi come Matteo Salvini o Enrico Letta generano nel motore di ricerca oltre 10 milioni di risultati. Anche wikipedia è piuttosto parca di notizie. Vi si può leggere, tra le poche altre cose, che Fink viene chiamato anche con l’abbreviativo “Larry” e ha studiato all’Ucla, l’Università della California dove si conobbero Jim Morrison e Ray Manzarek, che insieme a Robby Krieger e John Densmore avrebbero poi dato vita ai Doors. Di Buckley l’enciclopedia on line ci dice che il suo nome viene abbreviato in Tim, elemento che rimanda ancora alla musica, poiché il diminutivo rende questo uomo d’affari omonimo di quel cantautore americano, Tim Buckley, che oltre a incidere dischi importanti è stato il padre di Jeff, altro artista di indiscusso pregio. O’Hanley invece, su Wikipedia non compare neanche.
Il trio
A dispetto di questo loro relativo rimanere in ombra, Fink, Buckley e O’Hanley sono a capo delle più importanti società d’investimento mondiali, rispettivamente: Blackrock, Vanguard Group e State Street Corporation, tutt’e tre con base negli Stati Uniti. Si tratta di realtà che raccolgono il risparmio di privati e aziende e lo investono per generare guadagni. Anche in questo caso sono sufficienti poche cifre per aiutarci a cogliere la portata di ciò di cui stiamo parlando. Su Blackrock, wikipedia informa, citando una fonte risalente al 2013, che la società gestiva allora un portafoglio di 8 mila miliardi di dollari. All’epoca in Blackrock lavoravano 10 mila persone, oggi ce ne sono 16 mila, segno che gli affari non possono che essere lievitati. Per quanto riguarda Vanguard, disponiamo di una fonte diretta: nel suo sito internet la società informa che al 31 gennaio 2020 stava gestendo investimenti per oltre 6 mila miliardi di dollari. State Street Corporation è la più “piccola” delle tre, e al 30 settembre 2020 controllava 4,6 mila miliardi di dollari di investimenti nel mondo. Mettendo insieme i tre portafogli – e metterli insieme ha un senso, come vedremo – si raggiunge una somma di quasi 19 mila miliardi di dollari, cioè più del Prodotto interno lordo dell’intera Unione Europea nel 2019, che calcolato in dollari dà 16.300 miliardi.
La risalita
Nei nomi di quelli che sono i tre businessmen più influenti del pianeta ci si può imbattere in diversi modi. In questo caso è capitato durante una risalita che era partita da premesse che non li prendevano minimamente in considerazione e che vale la pena di raccontare. Il tentativo era quello di stimare il giro d’affari generato dai vaccini anti covid. Era stata da poco divulgata la notizia secondo cui Moderna, una delle prime tre aziende produttrici di vaccini insieme a Pfizer e AstraZeneca, aveva dichiarato di attendersi ricavi per 18,4 miliardi dalla vendita delle dosi. Poi però si erano aperte le falle nella distribuzione. Il combinato disposto dell’enormità del giro d’affari e dei clamorosi ritardi nel recapito dei prodotti rispetto agli accordi stipulati con l’Ue, suscitava la curiosità di andare a vedere quanto grande fosse il potere delle case farmaceutiche per permettersi una condotta del genere, inibita ai comuni mortale. Per potere va specificato qui che si intende ricchezza. La prima cosa da fare era quindi andare oltre i vaccini, e constatare così che secondo l’ultimo rapporto dell’Aifa sull’uso dei farmaci in Italia, nel 2019 gli italiani erano andati in farmacia con quasi seicento milioni di ricette e avevano acquistato un miliardo di confezioni di farmaci. Se a questa montagna di medicinali si aggiungevano quelli utilizzati negli ospedali, si raggiungeva una spesa complessiva di quasi 31 miliardi di euro. L’interrogativo immediatamente successivo è stato: nelle casse di chi finiscono ricavi così ingenti? È a questo punto che si entra in una selva di nomi dalla difficile pronuncia che per alcuni sono però una compagnia pressoché quotidiana e indispensabile alla vita. E comunque, di nome in nome la foresta si dirada, la risalita si avvicina alla meta, e l’orizzonte si fa chiaro.
La foresta
Un quarto della spesa sostenuta in Italia va in farmaci antitumorali; un altro 16 per cento viene assorbita dagli antimicrobici, quelli cioè che combattono batteri e virus. I due principi attivi per cui si spende di più sono il sofosbuvir/velatasvir e il glecaprevir/pibrentasvir, entrambi usati per combattere l’epatite C, patologia che nel 2016 in Italia ha provocato 38 decessi per milione di abitanti contro i 13 della media UE. Poi ci sono il pembrolizumab, la lenalidomide e il nivolumab, cui si ricorre rispettivamente nelle terapie per curare il carcinoma polmonare, il mieloma e il melanoma. Siamo ancora a livello di nomi, che rimandano ad altri nomi: l’Epclusa e il Maviret sono i farmaci in cui si sostanziano i principi attivi utili contro l’epatite C; il Keytruda, l’Opdivo e il Revlimid, sono le medicine in cui sono sintetizzati i principi attivi che agiscono contro le neoplasie appena elencate.
Arrivati ai farmaci, il passo successivo porta a chi li produce, cioè ai famosi detentori delle casse di cui si è alla ricerca. L’Epclusa è di proprietà di Gilead; il Maviret è della Abbvie; il Keytruda lo produce la Merck; il Revlimid e l’Opdivo la Bristol Myers Squibb. Ecco i nomi, sì. Ma la cosa non è del tutto soddisfacente: anche in questo caso si tratta di società, tutte invariabilmente statunitensi, tutte con decine di miliardi di dollari di fatturato, ma tutte ancora avvolte in una margini di indefinitezza troppo ampi. Occorre salire un altro po’ per svelare un altro pezzo di panorama. È quando si va a vedere chi sono gli azionisti di quelle aziende che si comincia a imbattersi con regolarità implacabile negli stessi nomi.
Dai farmaci alle aziende
Le principali multinazionali produttrici dei farmaci cui abbiamo accennato, quelli cioè per i quali in Italia si spende di più, in ordine di fatturato sono, dai quasi 100 miliardi di dollari della prima agli oltre 15 dell’ultima: Johnson & Johnson, Roche, Pfizer, Novartis-Sandoz, Merck, Abbvie, Astra-Zeneca, Amgen, Gilead, Bristol Myers Squibb. Dieci in tutto. Sette di esse sono statunitensi, la Roche e la Novartis hanno base in Svizzera, mentre l’AstraZeneca è anglo-svedese. Nelle compagini proprietarie delle sette aziende nord americane, Blackrock, Vanguard e State Street Corporation controllano, insieme, regolarmente, circa il 20 per cento delle quote. E lo fanno per di più con una alchimia che vede le prime due detenere all’incirca il 7-8 per cento ciascuna, e la terza il 4-5. Con una cadenza pressoché infallibile. In Roche, Novartis e AstraZeneca, pur con quote minori, sono comunque presenti. Quindi, riassumendo: dei circa 30 miliardi euro che vengono spesi in medicine in Italia, circa 6 vanno nelle medesime casse.
Chi controlla chi?
Eccola descritta la risalita che porta a Laurence Douglas “Larry” Fink, Mortimer J. “Tim” Buckley e Ronard P. O’Hanley. Ma non finisce qui. Perché la risalita svela altri particolari assai interessanti. Fink, Buckley e O’Hanley sono i cognomi più in vista, essendo quelli gli amministratori delegati di queste società che investono quote che esorbitano i Pil di interi stati nazionali. Ma chi c’è nelle compagini proprietarie di questi giganti? Ora, se possibile facciamo un passo indietro; torniamo a quando abbiamo detto che mettere insieme i portafogli delle tre società poteva avere un senso. Bene: tra i quattro principali azionisti di Blackrock figurano Vanguard, al primo posto, che deteneva il 12 per cento delle azioni al 30 dicembre scorso, e State Street Corporation, che aveva il 6. Il primo azionista di Vanguard è Blackrock (14 per cento), mentre State Street Corporation ha poco meno del 3 per cento delle azioni. Infine, i primi due proprietari della più “piccola” delle tre creature, State Street, sono Vanguard e Blackrock, che si dividono più o meno equamente il 16 per cento del totale. Cioè: il controllo delle tre principali società di investimento al mondo è in ultima analisi in mano agli stessi soggetti. Un elemento che ne amplifica a dismisura il potere, rendendoli potenzialmente in grado di determinare la fortuna o la disgrazia di imprese e società di vario tipo. Una potenza alla quale si affianca un formidabile potere di fare lobby e, letteralmente, di indirizzare lo sviluppo di interi settori della vita sociale in molte parti del pianeta (a questo proposito va detto per inciso che Blackrock è presente con quote significative in tutto il comparto bancario italiano, e non solo). Tanto per chiarirsi le idee: un taglio delle pensioni e un conseguente riversamento di parte dei salari dei lavoratori in fondi pensione, con molta probabilità arricchirà il portafogli delle società. Ancora: una campagna di prevenzione che scongiuri l’uso di farmaci in favore della prevenzione le sfavorirà, a meno che per fare prevenzione non si debba ricorrere a prodotti di aziende da esse controllate. È del tutto lecito aspettarsi che le lobby lavorino per l’uno o per l’altro scenario a seconda delle convenienze, e che raggiungano spesso i risultati, vista la capacità di fuoco, che come vedremo di qui a poco è una metafora quanto mai appropriata.
Nelle stanze dei bottoni
Per capire i poderosi interessi che fanno da cemento per tenere insieme questa entità interconnessa che pare uscita da un romanzo di fantascienza occorre però dare almeno uno sguardo alla composizione dei consigli di amministrazione, perché in quegli organismi ci sono i portatori di interessi reali che la alimentano. E allora, lì dentro, per fare alcuni esempi, ci si imbatte in Bader M. Alsaad (Blackrock), kuwaitiano, ex direttore dell’autorità per gli investimenti kuwaytiana, controllata dal governo di quel paese; Patrick de Saint- Aignan (State Street Corporation), con un passato in Morgan Stanley e come direttore della Bank of China; Sarah Bloom Raskin (Vanguard), che è stata nel board della Fed, la Banca centrale degli Stati Uniti, dal 2010 al 2014; Cheryl Mills (Blackrock), amministratrice delegata di un’azienda che realizza infrastrutture nell’Africa subsahariana, legata alla famiglia Clinton; Marco Antonio Slim Domit (ancora Blackrock), presidente di Inbursa, colosso di servizi bancari messicano. E poi una messe di personalità con trascorsi in grandi banche d’affari e giganti assicurativi, multinazionali operanti nel campo delle grandi infrastrutture, della produzione di macchinari industriali e del petrolio.
Il dominus
Quello che accade con Blackrock, Vanguard e State Street Corporation – e con entità analoghe di cui per brevità non diciamo, essendo le prime tre che abbiamo citato piuttosto rappresentative dei processi che si dipanano – è questo: gruppi che detengono una grande quantità di denaro si uniscono per raccogliere altro denaro, quello che le persone normali versano in fondi pensione, piani assicurativi, piani di risparmio per figli e figlie. Questa immensa mole di liquidità viene introdotta in canali dall’interno dei quali esce moltiplicata. E diviene lei, l’immensa mole di denaro, la vera padrona del gioco. Tanto che le realtà si controllano a vicenda: Blackrock è proprietaria di Vanguard che a sua volta controlla State Street che ha una importante partecipazione in Blackrock: una sorta di gioco di specchi che invece di moltiplicare le immagini, moltiplica denaro. Con le conseguenze accennate sulla vita sociale a diverse latitudini, e quindi su quella di ognuno di noi.
L’autonarrazione e la realtà
L’entità ha un potere immenso, anzi: è il potere. C’è chi ha calcolato che Blackrock nel 2017 abbia votato nove volte su dieci nelle 17 mila aziende di cui deteneva quote proprietarie. Tutt’e tre le società tendono sì a comunicare ai potenziali investitori che gli investimenti presso di loro sono redditizi, ma affiancano il nocciolo duro della vocazione al business tentando di ammorbidirlo con una avvolgente tendenza a dipingere la propria immagine come socialmente responsabile, ambientalmente evoluta e, insomma, ispirata a concetti tutto sommato di progresso; ingredienti con i quali tentano di migliorare la propria capacità d’attrazione. «Sosteniamo la diversità, l’equità e l’inclusione e lavoriamo per ridurre l’inquinamento ambientale», si legge nella sezione “chi siamo” del sito internet di Blackrock. Vanguard punta sulla diversità, nonostante gli investimenti che effettivamente mette in atto ricalchino fedelmente ciò che fanno le due sorelle delle quali è comproprietaria e dalle quali è a sua volta posseduta: «Vanguard è una società d’investimento diversa dalle altre», si legge nella home page del sito italiano, dove poi si assiste al tentativo di immedesimazione con il cliente: «Siamo di proprietà dei nostri clienti, significa che i nostri interessi sono allineati con quelli dei nostri investitori». Il messaggio è chiaro: di noi ti puoi fidare, siamo come te. Anzi: noi siamo te. Le stesse figure dei tre manager, che sono un po’ l’incarnazione sulla terra di queste entità astratte e sfuggevoli eppure concretissime, seguono il principio della costruzione di una buona reputazione che si nutre di una sorta di vocazione all’aiuto. Fink «è coinvolto negli organi di gestione di ospedali e associazioni di volontariato», si legge nella pagina di wikipedia che lo riguarda. Buckley figura tra i membri del consiglio di amministrazione del “Children hospital of Philadelphia”, uno dei più antichi e grandi ospedali degli Usa.
Dalla cura alle armi
Però, nonostante la reputazione che i giganti si autocostruiscono, si ha la tentazione di andare più in là. Alle tre entità, che a ben vedere ne costituiscono una sola, siamo arrivati a partire dai farmaci. Ma una volta dipanato l’intrico di nomi di principi attivi, medicinali, aziende farmaceutiche e composizione di consigli di amministrazione, non ci può accontentare, e sorge un’ultima domanda: dove altro investono Blackrock, Vanguard e Street State Corporation? Poiché i settori sono tantissimi, e anche gli stati in cui le società hanno interessi, occorre procedere per induzione, dando un’occhiata, magari, al mercato delle armi, che è uno dei più fiorenti, dal momento che secondo il monitoraggio dell’organizzazione non governativa Acled, negli ultimi dodici mesi si sono contate 93 mila occasioni di conflitto e oltre 120 mila morti; e visto che i dati del Sipri, l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, rilevano che nel 2019 solo le prime cinque aziende produttrici di armi al mondo hanno ricavato quasi 166 miliardi di dollari dalla vendita dei loro prodotti. Se uno deve moltiplicare soldi con i soldi, quale migliore modo di farlo anche con le armi? La domanda è retorica, e la risposta, è scontata; ma nasconde un’ennesima, ulteriore sorpresa in questa risalita. Lockeed, Boeing, Northroop Grumman Corporation, Raytheon e General Dynamics Corporation sono le prime cinque multinazionali per fatturato da vendita di armi. Come accade per la maggioranza delle più grandi aziende produttrici di farmaci, sono tutte statunitensi. Ebbene: i loro assetti proprietari sono controllati nella identica misura che abbiamo osservato per i colossi del farmaco. Al vertice di Lockeed, la più grande, ci sono Blackrock, Vanguard e State Street Corporation a dividersi il 26 per cento dell’azionariato; le stesse tre realtà controllano insieme il 16 per cento di Boeing e oltre il 20 per cento di Northroop Grumman e di Raytheon. Per quanto riguarda General Dynamics, tra i maggiori azionisti non troviamo State Street, ma in compenso Vanguard e Blackrock insieme stanno oltre il 10 per cento.
Antitumorali e bombe, antivirali e mine antiuomo. Il tutto ricompreso nella stessa entità interconnessa e sostenuta dal vero e unico domimus che si staglia definito all’orizzonte una volta completata la risalita e abbatte ogni logica che lo contraddica: il denaro, o meglio la sua moltiplicazione.