La confusione è grande sotto il cielo. Ci sentiamo sotto la sferza di eventi “grandi e terribili”, esorbitanti rispetto alla nostra capacità di scoprirne un senso univoco. Il risultato è il disorientamento, la paura, il pessimismo.
La pandemia ha esaltato tutto questo ma il fuoco che covava sotto la cenere da tempo assomiglia più ad una conflagrazione universale che distrugge il mondo invecchiato che ad un controllabile incendio locale. Schematicamente: non siamo ad una delle tante crisi cicliche risolte più o meno efficacemente con conflitti o nuove ingegnerie istituzionali. Stiamo vivendo la transizione da un’epoca ad un’altra. E come in tutte le vere transizioni non c’è più nessuno sul ponte di comando, non è chiaro quale sia la classe egemone. Siamo in una “nave senza nocchiere in gran tempesta”, per citare Dante nell’anno a lui dedicato.
Tutti i vecchi poteri sono in campo: esercitano la loro forza ma non hanno più la presa e l’influenza di un tempo. A tramontare, è l’idea illuminista di un processo di emancipazione e di liberazione interpretato e diretto, seconda le congiunture storiche, ora dalla borghesia ora dal proletariato. La trasformazione del mondo ad opera delle tecnologie digitali è sotto i nostri occhi: computer quantistici, intelligenza artificiale, la bioinformatica sono all’opera per generare un nuovo tipo di umanità. Eppure, la questione del potere resta, così come quella dello stato e del governo. C’è chi si illude di continuare a gestire i margini: ma è una illusione, appunto. Non c’è margine e perciò tutte le politiche di stampo socialdemocratico non hanno più una base.
C’è un alto e c’è un basso. Il numero sta dalla parte di quanti sono in basso. Ma il numero – il fantasmatico 99% – non è riuscito ad assumere una forma stabile. Quasi fosse una di quelle molecole primordiali a cui pensava Richard Dawkins in attesa del dono della permanenza. L’idea classica – unire gli sconfitti ossia coloro che sono destinati a vivere in condizioni di subalternità – può offrire una qualche stabilità al numero. Questo fu l’intuizione e il genio di Lenin: mettere insieme operai e contadini, dare stabilità – quindi realtà, quindi potenza di agire – a una umanità sofferente e realizzare qualcosa che non si era mai visto prima.
Il paradosso dei nostri tempi è che proprio la forza dirompente della modernità – il capitalismo – sta diventando la forza che trattiene. Cosa trattiene esattamente? Un mondo possibile, il dispiegarsi della potenza della tecnologia. Lo fa ritornando alle origini, ossia attraverso le recinzioni, quindi privando quel “numero in attesa di forma” della materia su cui esercitare la libertà. Ossia di quelle conoscenze – dati, algoritmi, potenze di calcolo – grazie ai quali il mondo potrebbe conoscere inedite forme di liberazione.
Oggi la potenza di calcolo è come l’acqua, una base per la vita e non un bene patrimoniale. La battaglia è per stabilire che dati e algoritmi sono, appunto, beni comuni. Quindi la prima vertenza è per la gestione dei dati, che deve essere pubblica.