Questa è la seconda parte di un diario il cui autore è un neo laureato che ha scelto di lavorare in una città di mare nel periodo estivo. È un racconto in prima persona, che si svolgerà in diverse puntate, delle vacanze viste con gli occhi di chi lavora. La prima parte si trova a questo link
La settimana di ambientamento e di scoperta della città è giunta al termine, così come il turno alla reception. Si abbandona così il primo contatto con il cliente. Ho iniziato a marciare tra i tavoli e con le portate in mano. Si è passati dalla staticità alla dinamicità. Prendere il ritmo non è facile, infatti nel mentre che scrivo, sono alla ricerca di una tecnica per poter ottimizzare le fasi del servizio, composte dalla preparazione, dal servizio stesso e dallo sbarazzo, con il riassestamento della sala per il turno successivo. Si è alla ricerca di una strategia per riuscire a trovare il ritmo, fase non troppo difficile, basti pensare ai battiti per minuto di un pezzo musicale.
Sul versante della mobilità ho avuto una nota dolente, nel vero senso della parola. Prima di partire ho acquistato due paia di scarpe nere, come richiesto in questo tipo di lavoro, però ho sbagliato l’acquisto. Premetto che ora, dopo aver trovato delle scarpe sostitutive molto comode, anche se non particolarmente classiche, sono tornato ad un livello accettabile di affaticamento, ma la settimana passata è stata tosta. Alla fine delle giornate di lavoro, mi sono ritrovato con le dita dei piedi completamente ricoperte di vesciche. Per cercare di risolvere il problema, ho effettuato diverse passeggiate sulla spiaggia ed eseguito dei bagni con i sali, ma solo dopo aver risolto con le scarpe ho riacquisito smalto. Questo episodio è stato notato da diversi colleghi, infatti ogni giorno c’era una sorta del “bollettino del piede”. Almeno un paio di colleghi al giorno, mi chiedevano come stessi, anche perché la mia andatura rivelava molto di quello che stavo attraversando. La sensazione che percepivo, ricordava la scalata di una montagna, in attesa di trovare un rifugio per la notte, dopo aver trascorso oltre cinque ore di viaggio. Ammetto che come sensazione è estremizzata, ma faccio fatica a pensare che nell’antichità, ancor prima di avere a disposizione le automobili o grazie alla scoperta dell’equitazione, era norma spostarsi a piedi, anche senza utilizzare delle scarpe. Non mi sono mai chiesto come sia andare a passeggio a piedi nudi per spostarsi da un luogo ad un altro, però anche se non è molto convenzionale farlo in un luogo di lavoro, come possibilità non l’avrei esclusa. Nel mentre, sono comunque riuscito ad utilizzare un paio di scarpe che avevo portato, anche se non propriamente nere e adatte al tipo di lavoro, ma sono comunque riuscito a risolvere in parte, prima dell’arrivo del paio nuovo.
In sala il contatto con il cliente è diverso rispetto alla reception, e la provenienza di coloro che consumano i pasti la si intuisce dalla cadenza della parlata o dal dialetto, non più dalla visione dei documenti, che ti vengono esibiti al banco della reception. Abbiamo clienti tedeschi, austriaci e svizzeri. Il lavoro della sala è diverso, infatti si portano le comande, si interagisce con il cliente, per quanto possibile, e si cerca di tenere d’occhio tutto quello che il tavolo ci comunica, come detto dal maitre: «Il tavolo ti parla, basta osservare e avrai tutte le informazioni necessarie per capire cosa fare”. Dal tavolo si riesce a capire l’andamento del pasto che sta svolgendo il cliente: come mangia, cosa mangia, cosa gli manca e di quali accortezze ulteriori ci si deve fare carico. Ogni singola persona che compone un tavolo ha una sua storia ed una sua provenienza. È interessane notare come il cliente interagisce con me o con i miei colleghi ed esponga le sue perplessità o i suoi apprezzamenti ai piatti ed al servizio. I bambini o i ragazzi si trovano in una sorta di mondo a parte, dove l’impronta della figura del genitore e di come si rapporta con loro è fondamentale. Si notano varie tipologie di bambini, introversi o estroversi, o per meglio dire più scalmanati, che affrontano la sfida del pasto. La definisco una sfida in quanto non è raro che alla fine del servizio, dove sono presenti i seggioloni, si hanno alcuni residui delle portate sul pavimento, quasi come se fino a poco tempo prima ci sia stato uno scontro tra carboidrati, proteine, grassi e vitamine con diversi superstiti. Altri invece, sono riusciti nella loro azione principale. Alimentare il bambino.
I turni, ne abbiamo parlato nella prima parte, sono suddivisi tra la colazione, il pranzo e la cena. Nelle colazioni sono stato inserito nel reparto caffetteria, mi occupo cioè della parte liquida, che messa così, in maniera del tutto fuori tema, mi rimanda al concetto di “società liquida” di Baumann, e invece ha a che fare con caffè, cappuccini, latte e tè. L’impresa più ardua è riuscire a scaldare il latte e riuscire a renderlo spumoso per effettuare un buon cappuccino. Il cappuccino, in caffetteria, è una vera sfida per tutte le persone che iniziano nel settore ristorativo. Nonostante siano passati alcuni giorni, non riesco ancora a fare un cappuccino degno del suo nome, ma rispetto all’inizio sto riuscendo a migliorare. Uno dei segreti sta nel suono e nell’imbeccare il beccuccio della macchina né troppo in basso né troppo in alto, all’interno del bricco del latte. Si deve riuscire ad effettuare un mulinello, così da poter creare la schiuma da amalgamare al caffè e creare il cappuccino. L’obiettivo è la realizzazione di più cappuccini contemporaneamente con sopra, una bella spuma soffice e compatta. Il cappuccino, tra l’altro, è il più richiesto: in maniera approssimativa compare in più della metà delle ordinazioni. Coloro che lo apprezzano di più sono i clienti stranieri, il che denota un certo apprezzamento per le particolarità italiane.
Come scritto nella prima parte, non sono un amante del mare, ma preferisco la montagna, ma il mare ha un certo fascino, soprattutto di notte. L’infrangersi delle onde e la quiete che emana la spiaggia è un’emozione unica, anche se il panorama che preferisco è di tutt’altro spessore. I suoni emanati dalle onde e il mio accompagnamento chitarristico hanno creato un’atmosfera particolare, interrotta solamente dall’arrivo dei primi sbadigli con il conseguente abbandono dello scoglio che avevo trovato per rilassarmi.