Questa è un’opinione personale, quindi la scrivo in prima persona, nonostante nelle scuole di giornalismo insegnino a non usarla, la prima persona. Un’opinione personale però, la puoi solo esprimere così, altrimenti le attribuiresti una “oggettività” che non può avere. Anzi, questa è un’opinione personale che avrebbe la velleità di provocarne altre, così da suscitare una discussione di cui probabilmente però, solo io e pochissimi altri sentiamo la necessità.
Giovanni Dozzini, scrittore, giornalista e animatore culturale perugino, in un recente post su facebook, ha riassunto come la vicenda intorno al fascio littorio restaurato che fa brutta mostra di sé al mercato coperto di Perugia sia la metafora dello scadimento della vita pubblica in una città che non riesce a costruire nulla sulle macerie del «regime rosso». Del fascio restaurato, scrive Dozzini, interessa solo a pochi, la maggioranza derubrica la vicenda quasi a «questione tra liceali»; il tutto, mentre una parte di città è costretta a fare i conti con una povertà sempre più stringente e tutto si riproduce uguale a se stesso in una stereotipizzazione vuota e pigra. Il fascio, insomma, è la metafora di una situazione generale.
Condivido tutto. Penso però che questi siano i sintomi di una patologia di cui andrebbero cercate di capire le cause.
Penso che una delle cause dello scadimento stia nel fatto che c’è una cesura netta tra chi ha vissuto il Novecento e chi non sa neanche cosa sia, e questo contribuisce a incomunicabilità e incomprensioni; a una sorta di lamentismo dei reduci cui fa riscontro la diffidenza annoiata di chi è venuto dopo. Questo succede perché il Novecento del quale siamo intrisi ci si è dissolto intorno senza che ce ne rendessimo conto, e molti di quelli cresciuti in quel secolo non se ne rendono tuttora conto. Noi però parliamo, scriviamo e soprattutto pensiamo come se fossimo ancora nel Novecento. Cioè come se si potesse ancora dare azione politica all’interno di istituzioni risucchiate da poteri finanziari smisurati; come se le persone invece di essere educate fin da giovani a combattere il corpo a corpo quotidiano col precariato fossero in grado di mobilitarsi collettivamente per migliorare le proprie condizioni di vita; come se resistesse ancora l’idea di un futuro migliore del presente che ha caratterizzato il Novecento.
Tutto quello non esiste più, e ha cominciato a dissolversi dagli anni ottanta del Novecento stesso, decade nella quale, peraltro, buona parte della attuale classe dirigente si è formata. Chi è diventato classe dirigente, giocoforza, si è tuffato nella liquidità attuale che gli fa assaggiare qualche fatua fortuna personale, ma decidere niente. Degli altri, alcuni si sono abbandonati al reducismo dei bei tempi andati che non tornano più, alibi posticcio che condanna all’inutilità; altri, pochi, fanno i conti con trasformazioni che percepiscono ma dentro alle quali non sanno agire.
Da parte mia non c’è alcun rimpianto per l’irregimentazione cultural-politica del Novecento che fagocitava le sfumature o le condannava alla marginalità, limitando di fatto le libertà. Il punto è che la libertà che si è dispiegata da quarant’anni a questa parte ha preso una piega tutta sua, come è tipico della libertà, peraltro. La libertà oggi in voga è quella di poter dire la propria senza aver letto una riga dell’argomento su cui si sta parlando; quella di arrivare in auto possibilmente sulle scale della scuola dei figli per far loro percorrere meno metri possibile all’aperto; la libertà di pensare a noi stessi fregandocene del prossimo perché sennò restiamo indietro nella competizione quotidiana.
Si tratta di una libertà plasmata sulla forma attuale del capitalismo, che ci fa sentire tutti importanti e unici perché possiamo comporre la nostra playlist su spotify o youtube a nostro piacimento, vedere la nostra serie su Netflix, e possiamo scrivere quello che ci pare sui nostri profili social; ma di fatto ci rende monadi alla ricerca di consumo come risarcimento dell’esistenza che ci viene sottratta quotidianamente, e ci condanna all’ideologia del “poco è meglio di niente”, che non è altro che il modo ideale per scivolare sempre più giù. L’individualismo, lungi dall’essere stata la liberazione auspicata dell’individuo, ha significato appiattimento su se stessi.
Tutto questo (e molto altro ovviamente, nessuna pretesta di esaustività) determina lo scadimento della vita pubblica a Perugia e nei suoi quartieri, come in altre città (Terni, per rimanere in Umbria, non fa eccezione, anzi). Resistono delle oasi, certo. Ma non diventano massa critica. Seminano in territorio aspro, e vanno tutelate come patrimonio dell’umanità. Ma non bastano, per il momento almeno, a ricostruire un’idea di comune che non assumerà le forme del Novecento morto e semmai crescerà assomiglierà forse al mutualismo delle origini incardinato sui bisogni delle persone, non su quelli dei rappresentanti delle persone, chissà.
È così che il Novecento dissolto per cui almeno io non ho rimpianti ci ha divisi tra integrati fatui, apocalittici inutili, e critici che non vedono via d’uscita ma la cercano. Ma è da qui che ci tocca ripartire, tutelando le oasi ma senza ancora vedere la meta, che comunque sta davanti, non nel secolo scorso.