Lo scadere di Quota 100 a fine 2021 ha dato il via a una serie di proposte tutte penalizzanti per i lavoratori perché guardano solo alla tenuta ragionieristica dei conti. C’è un’ipotesi che non si prende in considerazione, quella della “previdenza socialmente utile” che potrebbe combinare l’erogazione di un assegno pieno in cambio di una prestazione ridotta di cui potrebbero beneficiare persone e società
Il tema delle pensioni continua ad appassionare e preoccupare. La tanto agognata messa a riposo dopo una vita lavorativa ormai da anni è diventata a causa delle incertezze che la governano, uno degli incubi degli italiani. Dalla certezza della pensione di anzianità e di vecchiaia e i 35 anni di contributi si è passati attraverso le continue riforme Dini, Maroni, Prodi ecc, fino alla fatidica Fornero, che da ministro del governo tecnico Monti (ennesima emergenza italica) annunciò tra le lacrime la soluzione definitiva. Che riassunta suonava cosi: sia uomini che donne andranno in pensione più tardi e prenderanno tutti un po’ di meno, con l’applicazione del sistema contributivo e la durata della vita che si è allungata oltre gli ottanta anni, abolizione dell’anzianità e introduzione rigida dei 67 anni per tutti.
Evitando di rifare la storia di tutti i passaggi delle riforme, possiamo dire che il sistema previdenziale italiano è una delle preoccupazioni della Commissione europea, che ha sempre sottolineato come fosse squilibrato e insostenibile per i conti pubblici. Cosi ogni governo condizionato dalla pressione europea rispetto alla tenuta dei conti in materia di previdenza si è adoperato per trovare soluzioni nuove, per cercare di rispondere alle pressanti richieste dell’Unione europea. L’insistenza di Bruxelles su una materia per gli italiani cosi sensibile, ha alimentato l’attenzione della politica spingendo ogni partito ad elaborare una propria proposta. Con il risultato che un tema già caldo è stato travolto dalla ricerca del consenso, finendo con il diventare incandescente e centrale nelle vicende politiche nostrane.
Le tante soluzioni elaborate e messe in campo, condizionate dall’emergenza dei conti e dalle ricadute del consenso, hanno contribuito ad aumentare l’incertezza sia sulla data dell’uscita dal lavoro che sull’importo dell’assegno pensionistico. Con l’avvento del governo giallo-verde di M5S e Lega, che ha segnato un periodo “eccezionale” della politica italiana, un tema come quello delle pensioni, sensibile al consenso e segnato nel tempo da forti penalizzazioni, appariva come un’occasione troppo ghiotta. La Lega, che aveva nel cassetto la proposta più accattivante, la famosa Quota 100 ha trovato in quel frangente le condizioni per far approvare quella che veniva presentata come la fine delle ingiustizie sulla materia conseguite alla riforma Fornero, che ha penalizzato una parte del blocco sociale che ha avuto un ruolo importante nello sviluppo del paese.
Il piglio deterministico che ha caratterizzato quel periodo e l’egemonia della Lega sul M5S al grido “abbattiamo la Fornero“, ha permesso la realizzazione di Quota 100, che con i requisiti dei 62 anni anagrafici e 38 di contributi favoriva l’uscita di un numero notevole di lavoratori, non il milione previsto, ma almeno 400 mila (ad oggi circa 340 mila). Quota 100 era comunque un passo nella direzione giusta per cercare di venire incontro a una fascia di lavoratori estremamente penalizzati dalla Fornero, la cui riforma aveva allungato l’uscita di molti anni stabilendo poi per tutti il tetto fatidico dei 67 anni. Nei posti di lavoro, Quota 100 è stata accolta positivamente e vissuta per quello che era: un’opportunità che veniva offerta ai lavoratori per recuperare le ingiustizie della Fornero. La Lega ha finito così con l’interpretare le istanze dei lavoratori che sul tema delle pensioni non hanno mai trovato l’attenzione della sinistra, piegata alle politiche emergenziali e al governo dei sacrifici di Monti, ennesimo tecnico della provvidenza europea. Nemmeno il sindacato ebbe allora la forza di contrastare un governo dal consenso altissimo, favorito dal clima d’emergenza seguito dalla rovinosa caduta del governo Berlusconi e dall’incalzare della crisi greca a cui l’Italia veniva accostata continuamente. Il clima di fatto talmente teso che nemmeno le iniziative messe in campo furono partecipate come ci si sarebbe aspettato; quel periodo, in particolare la caduta del governo Berlusconi, è stato in seguito oggetto di riflessioni e ipotesi molto suggestive riguardo ingerenze e complotti.
Al netto di tutte le ipotesi e del retro pensiero, il problema che si pone oggi è la fine di Quota 100, che avrà termine alla data fatidica del 31 dicembre 2021, e che determinerà dal 1 gennaio 2022 il ritorno alla Fornero e quindi all’uscita dal lavoro a 67 anni. Di fatto, si determina la più grande ingiustizia che si potesse immaginare nei confronti di quei lavoratori che per pochi mesi, anni di anzianità o contributi non hanno potuto usufruire di Quota 100. Questi, non dissimili dai “premiati” di Quota 100, individuabili nello spartiacque dell’anno di nascita 1960 e seguenti, si vedono sfuggire davanti al naso la possibilità di uscire in tempi accettabili per ripiombare nell’obbligo dei 67 anni, l’ennesima beffa di governo e politica. Il sindacato sembra avere colto il problema, anche perché quella generazione rappresenta una fetta importante del mondo del lavoro attivo, è sindacalizzata ed è presente negli organismi dirigenziali; per questo insiste, sulla possibilità di un’uscita dignitosa simile a quella di chi ha usufruito di Quota 100.
Più si avvicina la data del 31 dicembre, più il dibattito si fa rovente. E molti non perdono occasione per dire la loro o proporre una soluzione alternativa, fino a quelli che difendono convintamente il ritorno alla Fornero a causa del solito problema della tenuta dei conti tanto cara all’Europa e alle politiche d’austerity. La Lega, come sempre molto attenta ai temi del consenso, continua a caratterizzarsi per il partito anti-Fornero e continua ad avanzare proposte di prolungamento di Quota 100 per qualche tempo, da qui le ipotesi 102, 103, ecc già liquidate dal sindacato che richiede una riforma strutturale e considera le quote di interesse troppo marginale.
Al momento, non si riesce ad avere un quadro decente di riferimento che vada oltre le indicazioni sindacali, che hanno proposto una gradualità nelle uscite a partire dai 62 anni di età e i 41 anni di contributi a prescindere dall’età, e la proroga di qualche anno di Quota 100 perorata dalla Lega. La questione evidente è che il tema ancora una volta assume solo un aspetto contabile, di tenuta dei conti, e non tiene conto del lato umano, quello dei lavoratori. E ciò accade purtroppo anche a causa delle politiche del Next generation EU (poi PNRR) improntate alla crescita e all’aumento della produttività anche attraverso pesanti riforme che rischiano di non favorire la riflessione sulla previdenza.
Invece dei soli conti, si dovrebbe tenere conto dei lavoratori, delle loro storie e soprattutto delle vicende umane e del contributo sociale di quella generazione dei cosiddetti baby boomer (figli del boom economico), del loro contribuito dato alla crescita, allo sviluppo, alla stabilità di questo paese; si dovrebbero considerare le storie di quegli uomini educati al valore del lavoro, passati per un’esperienza densa fatta di fatica, rinuncia, sacrificio, una generazione che aveva accettato il patto con lo stato (studio, lavoro, riposo) e che si vede oggi per l’ennesima volta sacrificata e discriminata per interessi sempre meno chiari. Una generazione cui si chiede continuo sacrificio e comprensione senza nessuna riconoscenza, che vede allontanarsi la data di un riposo sperato e meritato, la realizzazione di un progetto di vita, con oltre 35 anni di lavoro per lo più passato in condizioni di disagio e fatica nel passaggio dalla manualità all’innovazione degli anni ‘80 e ‘90, e in evidente crisi con l’attuale svolta digitale. Una fascia di persone che merita comprensione e riconoscimento e che è ben disposta a lasciare un po’ di spazio ai propri figli che sembrano ormai travolti e sfiduciati dalla precarietà e dalla disoccupazione.
Il tema affrontato dalla parte dei lavoratori dovrebbe tenere conto di argomenti quali: giustizia, uguaglianza, riconoscenza, che evidentemente non si combina con la tenuta dei conti e soprattutto con la semplificazione fredda ottenuta con le rigidità della Fornero, che non ha tenuto conto dell’aspetto umano (vedi gli esodati) anche se nel pianto annunciatorio se ne coglieva una qualche consapevolezza.
Oltre a Lega e sindacati, tra i tanti che avanzano possibili soluzioni (Tridico, Boeri, Cazzola e altri), pare trovare attenzione la vecchia proposta del 2013 di Baretta e Grecchi che sostanzialmente prevede l’uscita flessibile a partire dai 62 anni con decurtazione dell’assegno. Persino Boeri che allora la bocciò ora propone “il contratto di espansione”, cioè la possibilità di uscita anticipata con penalizzazione, una cosa simile alla proposta di Damiano Baretta. Tutte le proposte, va ricordato, tengono conto dei costi dell’operazione, punto fermo delle precondizioni EU per accedere al Nex Generation, e ben definito nei grafici dell’Inps che disegnano una gobba precisa che si pensa riassorbibile intorno al 2045.
Le dichiarazioni prudenti che arrivano dagli ambiti governativi non si spingono oltre il mantenimento e la revisione delle flessibilità già previste da Quota 100 come “Opzione donna” e “Ape social”, molto limitate o particolarmente penalizzanti, prendendo in considerazione la possibilità di ampliare queste platee ad alcune categorie di lavori gravosi. E in campo c’è anche la proposta di Tridico di legare la flessibilità in uscita ad una erogazione dell’assegno interamente calcolata sul sistema contributivo, di fatto per alcuni molto penalizzante.
Se al contrario si ascoltassero i lavoratori, ci si renderebbe conto che si tratta di opzioni che non hanno molto successo. Inoltre andrebbe detto con chiarezza che un sistema basato sulla decurtazione dell’assegno per la maggior parte dei lavoratori è inaccettabile, basta pensare che rispetto a uno stipendio di 1.600 euro la pensione potrebbe essere di 1.200, e se decurtata intorno a 1.000. Un pensionato con famiglia e figli studenti, disoccupati o precari e con potere d’acquisto ridotto è condannato a lavorare fino all’ultimo giorno possibile per poter mantenere più alto possibile il reddito familiare e il potere d’acquisto. L’ipotesi decurtazione è altresì considerata un furto rispetto all’impegno e al sacrificio di una vita.
La visione economicista del problema che non riesce a spostarsi dalla questione dei conti, la posizione della commissione EU, lo stesso PNRR, remano tutti per il ritorno secco alla Fornero, senza tenere minimamente conto di quelle centinaia di lavoratori evidentemente discriminati. Il malgoverno, la miseria politica, la ricerca ossessiva del consenso, i diktat europei finiranno per penalizzare e umiliare un’importante fascia di cittadini lavoratori, che dallo stato si aspetterebbe ben altro trattamento.
Sul tema pensioni si sono consumati errori clamorosi e si sono introdotti privilegi assurdi e odiosi, dalle pensioni d’oro ai baby pensionati, tutti temi ben presenti che non aiutano una riflessione serena, peraltro già condizionata dalla riduzione dell’assegno pensionistico ottenuta con il passaggio al sistema contributivo. Tutte le proposte tendono a ragionare sul risparmio e sui costi e non riescono a trovare una via alternativa che in realtà potrebbe esserci, mi permetto di suggerirla.
Per provare a trovare soluzioni alternative, c’è bisogno di pensare “altrimenti”, di provare a cambiare punto di vista, di passare dal cosa ti tolgo al cosa ti posso dare se ti aiuto ad andare in pensione in un tempo e con modalità congrue ed accettabili, di spostare il pensiero dalla penalizzazione allo scambio incentivante. Va innanzitutto esclusa la penalizzazione dell’assegno perché qualsiasi forma di riduzione renderebbe la proposta impraticabile, in quanto è pressoché impossibile per i lavoratori pensionandi rinunciare a parte di un reddito vitale per sé e per la famiglia. Quindi si deve spostare il ragionamento sull’anticipo dell’età pensionabile senza decurtazione dell’assegno.
Come si può dunque andare in pensione qualche anno prima, come è avvenuto con Quota 100, senza pesare troppo sui conti ed i bilanci pubblici? Forse con la “previdenza socialmente utile” , sostituendo la decurtazione dell’assegno con il contributo per qualche tempo di lavoro sociale. Proviamo a fare qualche ipotesi per capirci meglio.
Se il limite pensionistico è di 67 anni si potrebbe pensare di anticipare l’uscita mantenendo l’intero importo dell’assegno maturato al limite massimo dei 67 anni. Stabilito un limite di 62-63 anni di età anagrafica, e di 35-36 anni di contribuzione, le persone nate intorno al 1960 potrebbero vedere aprirsi delle finestre d’uscita. A questo punto si dovrebbero stabilire delle percentuali accettabili di “scambio lavorativo” a scalare. Ad esempio: 6 per cento per chi esce dal lavoro a 62 anni; 5 per cento per i 63enni e così via. La percentuale andrebbe calcolata sul totale dell’assegno mensile e trasformata in ore di lavoro mensili o settimanali da svolgere. In questo modo insomma, si garantirebbe l’intero importo della pensione in cambio, per qualche anno, di un certo numero di ore lavorative a scalare.
Si tratta di una ipotesi che non dovrebbe essere alternativa a quella del governo ma dovrebbe intendersi quale un’ulteriore opzione offerta ai lavoratori interessati, che potrebbero così scegliere tra “la previdenza socialmente utile” dell’assegno pieno in cambio, fino ai 67 anni, di una quota di ore lavorative, e la proposta del governo dell’assegno tagliato.
Trasformare la decurtazione in lavoro socialmente utile sarebbe più accettabile dal blocco dei lavoratori interessato, che lo vedrebbe più come un ulteriore contributo alla comunità che come una vera e propria penalizzazione, quale sarebbe il taglio dell’assegno tout court.
Gli enti e le amministrazioni sempre alle prese con la quadratura dei bilanci, e con la scarsità di personale sarebbero interessati ad avere un supporto esperienziale e professionale da parte di queste figure a costi bassissimi. Pensiamo ai lavoratori della scuola e dell’istruzione che potrebbero essere molto interessati da una proposta di questo tipo e potrebbero garantire doposcuola e tempo pieno apportando un contributo straordinario alle famiglie. Settori come sport, cultura, sociale, arredo urbano oggi dismessi o in crisi potrebbero essere riavviati e produrre reddito a vantaggio delle amministrazioni.
Si potrebbe inoltre prevedere ogni 2-3 contratti di questo tipo l’assunzione a tempo indeterminato di un giovane cosi da favorire sia l’occupazione giovanile che il ricambio tecnologico.
Riassumendo: i lavoratori non hanno mai digerito la riforma Fornero, che ha stravolto e penalizzato l’impianto previdenziale andando oltre tutti gli aggiustamenti che l’avevano preceduta. Le vicende pensionistiche si prestano per la loro sensibilità alla demagogia politica e alla strumentalizzazione ai fini del consenso, come ha ben capito la Lega. Il superamento secco di Quota 100 dà luogo a uno scenario inaccettabile per un blocco importante di lavoratori. Tutte le ipotesi sono impostate al risparmio e al contenimento dei costi e quindi in termini di penalizzazione dei tempi d’uscita e dell’assegno pensionistico.
Servirebbe la forza di una rappresentanza, la capacità di pensare altrimenti e di uscire dalla rigida visione economicista, sarebbe importante recuperare una sensibilità più attenta alle vicende umane, sperare di trovare vie d’uscita più adeguate e attente alle vite, alle storie, e alle esigenze delle persone dei lavoratori, delle comunità, magari provando a verificare se una proposta di questo tipo sia gradita e praticabile.
Si tratta di considerazioni concentrate sul superamento non traumatico di Quota 100. Ma il problema vero rimane quello dell’occupazione stabile dei giovani e delle donne, che saranno quelli veramente travolti dal fenomeno e per i quali la pensione sarà molto ridotta e inadeguata, se non un vero e proprio miraggio.
Ultimo aggiornamento 27/10/2021