Sulla misura introdotta nell’aprile 2019 circolano una serie di leggende metropolitane nutrite da un immaginario collettivo e da un racconto mediatico non propriamente aderenti alla realtà. Siamo andati a vedere i dati reali
Sul reddito di cittadinanza si sono concentrati per mesi titoli di giornale sui presunti “furbetti” che lo percepirebbero in maniera indebita. Sulla misura pare ci sia stata frizione, nel corso del consiglio dei ministri del 28 ottobre scorso che ha varato la legge di bilancio, tra i favorevoli e i contrari alla prosecuzione della sua adozione. Più in generale, in una parte di opinione pubblica e del personale politico alligna la convinzione che si tratti di un beneficio che favorisce sfaticati e appesantisce il bilancio dello stato. Si tratta di una suggestione dell’immaginario collettivo che deriva da una certa idea lavorista di cui è impastata la nostra società, e da cui discende l’attribuzione della responsabilità dello stato di povertà a chi vi si trova, e non alle condizioni sociali che possono determinarla, la povertà. I poveri, insomma, non avrebbero voglia di lavorare. Il che, col 9,2 per cento di disoccupazione (8,2 per cento in Umbria), 2,3 milioni di persone in cerca di lavoro in Italia (32 mila in Umbria) e con 2,6 milioni di persone con contratti di lavoro a scadenza (41 mila in Umbria), appare già di per sé come un paradosso. Così come sembra piuttosto paradossale che in un Paese in cui quasi una persona su dieci è in stato di povertà assoluta, si discuta in maniera così accalorata su una misura alla quale è stato dedicato per il 2022 un miliardo di euro, vale a dire lo 0,13 per cento delle spese dello Stato, che nel 2021 avranno ammontato a oltre 773 miliardi. Ma andiamo con ordine.
I dati reali
Il Rapporto del ministero del Lavoro pubblicato a novembre 2020 consente di misurare con dati reali la misura varata ad aprile 2019 dal Governo Conte. Se le persone in stato di povertà in Italia, secondo quanto rilevato dall’Istat, sono il 9,4 per cento, nella fotografia scattata al giugno 2020, cioè a un anno dal varo della legge, i percettori del Reddito (o della Pensione) di cittadinanza sono la metà dei poveri, cioè 4,8 per cento degli italiani. Tra reddito e pensione di cittadinanza, erogazioni che vengono accreditate alle famiglie, sono coinvolti 1.205.828 nuclei ai quali viene accreditato un assegno medio mensile di 525 euro nel caso del reddito e 230 nel caso della pensione; l’erogazione media è di 509,7 euro al mese. Nell’87 per cento dei casi la persona che fa richiesta del beneficio per la propria famiglia è di origine italiana.
Le famiglie beneficiarie del reddito di cittadinanza sono composte mediamente da 2,5 persone. Il 35 per cento di esse ospitano minori, che in oltre centomila casi hanno meno di tre anni. Più di 120 mila componenti dei nuclei che beneficiano di reddito o pensione di cittadinanza sono persone con disabilità. Nel caso delle famiglie in cui è presente un solo genitore, l’incidenza dei nuclei percettori si attesta al 20 per cento.
In Umbria la percentuale di famiglie che beneficiano della misura scende al 3,1 per cento (11.891 famiglie tra reddito e pensione di cittadinanza) e l’assegno medio mensile non arriva a 500 euro. In questa regione si registra una incidenza di erogazione a famiglie di origine straniera del 28 per cento, più alta della media italiana (13 per cento) e più alta dell’incidenza della popolazione immigrata sul totale dei residenti in Umbria, che è di poco superiore al 10 per cento.
Furbetti o unicorni?
Nel rapporto del ministero sono contenute anche una serie di considerazioni che il mondo politico dovrebbe conoscere bene, nonostante molte dichiarazioni, e che rendono i titoli allarmistici sui furbetti piuttosto fuorvianti. Più che i furbetti si direbbe che la caccia sia agli unicorni, creature immaginarie di cui si favoleggia ma che nessuno ha visto mai. Beninteso: che ci sia qualche approfittatore è fisiologico, ma tutti i dati concordano nel disegnare l’appropriatezza di una misura varata per alleviare la povertà, piaga che invece non è un unicorno ed esiste davvero. Intanto: nella fase di definizione della legge istitutiva si prevedeva che la fascia di famiglie che avrebbe avuto i requisiti per accedere alla misura sarebbe stata di 1.250.000. Il dato al 30 giugno 2020 ci dice che in quel momento percepivano reddito o pensione di cittadinanza 1.205.000 nuclei familiari. Nessuna incongruenza, quindi. Ma c’è di più. Perché nel rapporto si rileva che il numero di erogazioni cresce nelle aree a più forte incidenza di povertà, di disoccupazione, di reddito disponibile e di grave deprivazione materiale.
«Non vogliono lavorare»
L’adagio lavorista che imputa ai poveri la mancanza di voglia di lavorare si riflette come detto nello scetticismo di una parte dell’opinione pubblica e del mondo politico nei confronti della misura. Da qui si evoca e dovrebbe derivare una “stretta” che solo a nominarla dipinge una realtà che non esiste. Al di là del fatto che un assegno medio di 500 euro per una famiglia di due-tre persone non è propriamente una rendita che consenta di vivere sugli allori, bisogna considerare che la legge istitutiva del Reddito di cittadinanza prevede la stipula di un “Patto per il lavoro” che, ad oggi, impone alle persone percettrici i seguenti obblighi: l’accettazione di un’offerta di lavoro entro i cento chilometri nei primi dodici mesi; entro i 250 chilometri dopo i dodici mesi, e su tutto il territorio nazionale al rinnovo dell’erogazione. Il Patto viene stipulato nei Centri per l’impiego, che prendono in carico le persone cui va il beneficio che siano in grado di lavorare e propongono, quando e se si presentano (ricordiamo i dati sulla disoccupazione), le offerte di lavoro. Se nell’immaginario collettivo queste procedure sono fumose e si sarebbe davanti a una sorta di prendi i soldi e scappa, nella realtà è invece tutto monitorato al millimetro: l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) informa che a settembre 2021 c’erano 1.109.287 persone che si trovavano nella condizione di dover sottoscrivere il Patto di cui 420.689 erano già state profilate. E al giugno 2020 si sapeva perfettamente che c’erano state oltre 914 mila persone ai Centri per l’impiego così suddivise: 249.197 giovani tra i 18 e i 29 anni, e i restanti adulti. Di loro si sa la storia lavorativa, le competenze e molto altro. E quando arrivano le offerte da parte delle imprese, gliele si presentano con i vincoli che si sono detti sopra. Furbetti a chi?