Lo scorso 10 novembre a Perugia è andata in scena quella che è stata definita la «messa in sicurezza» di un immobile abbandonato nel quartiere di Fontivegge che è consistita nel murarne gli accessi affinché la struttura non si popolasse di «presenze non autorizzate». L’operazione ha visto impegnati «polizia locale, questura e cantiere comunale», recita una nota del Comune che informa della presenza sul posto, al momento delle operazioni, dell’assessore alla Sicurezza e del capogruppo della Lega in Consiglio comunale.
Si tratta di un episodio che si è perso nei meandri delle cronache e che sarebbe invece interessante isolare dal flusso incessante di notizie se in città, e più in generale nella regione, si rinvenisse l’interesse a recuperare l’idea di ragionare sulla cosa pubblica al di là di cliché che condannano alla semiclandestinità chi osa addentrarsi al di là del velo di un senso comune imbevuto di semplificazioni.
Proveremo a procedere per punti e per quelli che ci sembrano gradi di complessità crescenti.
1) Dopo sette anni di governo di centrodestra, la questione sicurezza in città e più nello specifico nell’area di Fontivegge, è una ferita ancora aperta, come l’abbiamo definita nella retrospettiva in due parti che abbiamo dedicato al quartiere. Poiché critichiamo le semplificazioni, evitiamo accuratamente di rimanerne vittima: la sicurezza nelle città è conseguenza diretta del livello di qualità della vita di un luogo tout court, è cioè una questione di sistema che coinvolge condizioni economiche, qualità dei servizi erogati e possibilità di accedervi, mobilità e molto altro. La destra perugina che dall’opposizione la brandiva come come una clava reclamando repressione, oggi se la ritrova come questione irrisolta sotto forma di boomerang. Succede perché la repressione è una delle leve, né prioritaria e meno che mai sufficiente, per garantire sicurezza.
2) L’assessore e il capogruppo della Lega suo compagno di partito che tengono a far sapere di aver presenziato alle operazioni sono la migliore metafora di come le forze al governo della città pensano loro stesse e si auto-rappresentano, e di come al tempo stesso il loro governo sia effimero perché inefficace, ancorché potenzialmente dannoso. La loro presenza in quel luogo è stata del tutto simbolica, essendo gli unici lì a non avere avuto compiti operativi bensì contemplativi di altre figure invece al lavoro, e si presta a una doppia interpretazione. La loro; cioè quella di persone fiere di stare dalla parte che ritengono giusta, quella dell’ordine e del decoro, e desiderose di farlo sapere a persone residenti esasperate (anche) dal loro governo dimostratosi incapace di risolvere i problemi, come invece era stato promesso. La nostra; che interpretiamo invece la presenza di un assessore e di un capogruppo in quel luogo come uno schiacciamento della politica su una funzione di controllo e repressiva che è di pertinenza di altri. E se la politica si schiaccia su controllo e repressione, apre un vuoto di pensiero e di analisi, premesse necessarie alla sperimentazione di soluzioni ai problemi; in altri termini si condanna – al meglio – a preservare lo status quo quando non a peggiorarlo. I corpi stessi di assessore e capogruppo nel luogo sbagliato, a vegliare su un’operazione tutto sommato banale come la chiusura dei varchi di un edificio, diventano in questo senso l’incarnazione della sottrazione di tempo alla funzione politica che essi avrebbero potuto e dovuto svolgere in quello stesso momento in altri luoghi a loro più consoni.
3) L’episodio di cui stiamo parlando ci squaderna due questioni eminentemente politiche. La prima è quella degli immobili inutilizzati. Tanti, troppi in città divenute spesso musei di scheletri che sono la rappresentazione fisica della desertificazione di prospettive sviluppiste un tempo meravigliose che oggi si mostrano datate e bugiarde. La seconda è quella dell’umanità che vi si ripara, frutto anch’essa di promesse bucate: nessuno sceglierebbe di fare il senzatetto o di vivere di espedienti se solo avesse un’alternativa decente. Chi pensa che la povertà sia una scelta lo fa perché consciamente o meno ritiene che ci siano persone diverse per Dna, è cioè etimologicamente razzista, seppure inconsapevolmente. Il fatto che l’amministrazione di cui l’assessore alla Sicurezza è parte e che il capogruppo della Lega sostiene, di queste cose politiche non si occupi, è un’ulteriore dimostrazione della sua inadeguatezza.
4) Che la chiusura di un luogo diventi il simbolo di una vittoria, tanto da volerlo sottolineare presidiandola fisicamente, è anche questa una metafora: quella di un potere claustrofilo, schiacciato su di sé, che tende a cingersi e a disegnare confini piuttosto che tentare di aprire prospettive che non immagina neanche.