Il Documento di programmazione varato dall’esecutivo è un misto di analisi datate e ricette inadeguate per una regione con criticità evidenti. Non tiene conto né delle condizioni dell’Umbria, né del contesto europeo. La sfida è capire se c’è vita oltre una maggioranza che non vede pressoché nulla al di là dell’impresa privata
«Presidente e Giunta intendono rafforzare l’orientamento di politica economica che pone le imprese di ogni dimensione al centro dell’azione di sostegno del Governo regionale, perché sviluppare l’impresa è creare lavoro, sostenere i redditi, combattere la povertà». È un passo del Documento di economia e finanza regionale (Defr), cioè del principale strumento di programmazione delle regioni, tratto dalla bozza preadottata dalla Giunta dell’Umbria per il periodo 2022-2024. Vi è riassunta una attitudine di cui è impregnato l’intero documento. Poche pagine oltre si legge che «le imprese sono la chiave per fare ripartire lo sviluppo. Senza la creazione di un ambiente favorevole all’imprenditorialità non si determinano le condizioni per nuove possibilità occupazionali e per la produzione di ricchezza necessaria ad un alto livello di coesione sociale».
Mettere l’impresa al centro delle politiche economiche può apparire in prima battuta una iniziativa di buon senso. Si tratta di un’interpretazione favorita da un pensiero sostanzialmente unico che vede nel prosperare dell’iniziativa privata una prospettiva di benessere della società tout court. E ciò accade perché nell’inconscio collettivo si è sedimentata come verità assoluta la predizione di quella che è stata definita teoria dello sgocciolamento, secondo la quale favorendo con opportune misure la fascia alta della società e più in generale l’iniziativa privata, il benessere finirà per arrivare anche alle fasce basse. Per sgocciolamento, appunto. Oltre a circolare in grandi quantità nelle vene dell’inconscio collettivo, quella della teoria dello sgocciolamento è la linfa che nutre il Defr, documento nel quale pure nell’accenno che si fa al tema dell’economia circolare, si dichiara di ritenere «fondamentale intervenire anche prevedendo aiuti alle imprese per migliorare la sostituibilità delle componenti, ridurre gli scarti, favorirne il riuso, mitigare l’impatto inquinante del packaging» (corsivo nostro, ndr).
Al di là delle considerazioni che si possono fare sull’attitudine pro impresa della Giunta che ha varato il Defr, che appare venata da una sorta di messianismo integralista, ci sono peculiarità dell’Umbria, effetti della pandemia, e un quadro europeo che suggerirebbero uno sguardo diverso, e più laico, sulle imprese e sulle politiche economiche più in generale. Il punto da cui muoversi è il seguente: se l’impresa (privata) è l’ombelico del mondo descritto nei passi che abbiamo appena citato del Defr, ne consegue che il ruolo dell’istituzione pubblica deve relegarsi in ultima analisi alla predisposizione di una cornice nella quale l’impresa stessa possa navigare liberamente per poi attendere che anche la coesione sociale e la lotta alla povertà ne beneficino. In altri termini, all’interno di un quadro del genere, il pubblico viene in qualche modo sollevato dal pensare altre politiche che non siano quelle di aiuto alle imprese, poiché è da quelle che deriva tutto il resto. Questo prevede la teoria, e questo fa la Giunta regionale dell’Umbria. Vediamo qual è la pratica.
Le peculiarità dell’Umbria
Una premessa. Abbiamo finora parlato genericamente di impresa e di imprese, come se si trattasse di un corpo unico. L’abbiamo fatto perché quello è il senso delle parole racchiuse nel Defr. Che sono però il frutto di un abbaglio. Le imprese sono tante e di diversi tipi. Si differenziano per settore, dimensioni, tipo di investimenti, assetto societario e molte altre variabili. L’abbaglio produce un corto circuito nello stesso Defr, in cui subito dopo aver decantato le qualità dell’impresa, si stabilisce che gli «sforzi di sostegno saranno sempre più concentrati e meno ripartiti a pioggia». Segno che una selezione all’interno del mondo dell’impresa, la stessa Giunta intende operarla. Ma tant’è.
Se le imprese che operano in Umbria, come in qualsiasi altro territorio, sono diverse tra loro, c’è però un tessuto imprenditoriale che produce effetti, ed è di questi che occorre parlare per dimostrare che la mistica pro impresa della Giunta testimonia da un lato una volontà di appiccicare un modello ideale a una realtà contraddittoria, e dall’altro non tiene conto di un quadro continentale che sta cambiando. Il tessuto produttivo di questa regione produce salari più bassi della media nazionale e un livello di precarietà maggiore, impiega mediamente più persone in mansioni più basse rispetto alle competenze che hanno. Le imprese umbre investono mediamente meno in ricerca e sviluppo rispetto a quanto avviene nel resto d’Italia, fattore che determina una più bassa produttività, cioè una minore capacità di creare ricchezza. Sono criticità strutturali e risapute, tanto che la stessa Giunta regionale le aveva messe nero su bianco nel Defr 2021-2023, pur facendo salva, producendo un altro corto circuito, la centralità dell’impresa.
Gli effetti della pandemia
Ci sono poi vulnerabilità che possono leggersi in controluce anche negli effetti prodotti dalla pandemia in questa regione. È lo stesso Defr a rilevare la «accentuazione della disomogeneità nella distribuzione dei redditi, come testimonia l’aggravamento della povertà assoluta», mentre nel frattempo i depositi bancari di famiglie più abbienti e imprese sono cresciuti dell’11,9 per cento nel giugno 2021 rispetto all’anno precedente. Ed è nel medesimo documento che si legge che «gli esiti delle scuole superiori sono peggiorati soprattutto tra gli studenti che provengono dalle famiglie più povere» (corsivo nostro, ndr). Ancora: i circa 6.500 posti inghiottiti nel buco nero del 2020 erano ricoperti in massima parte da giovani precarie e precari, lo sa ovviamente anche la Giunta, che nel Defr scrive che «a pagare le conseguenze sono dunque state principalmente le categorie piu vulnerabili: oltre a giovani con contratti a termine, anche apprendisti, lavoratori con livelli di istruzione piu bassi, lavoratori operanti in attività non essenziali». E la ripresa attuale sa tanto di ulteriore stretta in direzione della precarizzazione della forza lavoro, se è vero che, secondo Bankitalia, dei contratti avviati nei primi otto mesi del 2021, l’87 per cento sono a scadenza, mentre da gennaio ad agosto 2019 i contratti a tempo determinato sottoscritti erano stati il 20 per cento.
Le transizioni indicate dall’Ue
Dentro questo scenario, dall’Unione europea arrivano direttive chiarissime. La transizione verde e digitale di cui si parla ormai da più di un anno e a cui sono sottoposte le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non è un vezzo da radical chic, ma una necessità dei sistemi produttivi continentali e geopolitica per abbassare i costi di produzione, svincolarsi dai combustibili fossili e tentare così di competere nella globalizzazione. Una questione centrale, oggi. Per capire come venga affrontata nel Defr della Giunta regionale dell’Umbria però, occorre uscire dall’ambito economico per approdare, almeno per un momento, a quello sentimentale. Oltre allo spazio dedicato alle varie questioni (va da sé: più all’impresa che al resto) è infatti anche l’umore dello scritto che cambia a seconda che si parli di impresa o di altro. L’enfasi entusiasta dei passi citati all’inizio di questo articolo vira su toni assai più compassati quando si tratta di parlare di ambiente e digitalizzazione, cui sono dedicati stringati paragrafi che vengono introdotti dalla locuzione «per quanto riguarda», dando l’impressione di star scrivendo qui qualcosa per dovere, laddove nel caso dell’impresa si aderiva con un piacere al limite della gaiezza. Anche se pure qui, come lì, i contenuti appaiono piuttosto scontati e datati. A partire dalla considerazione che «l’Umbria incarna naturalmente il Green New Deal», affermazione che non tiene conto del fatto che Terni è una delle città più inquinate d’Europa e che in diverse zone della regione ci sono vertenze ambientali in atto.
Le possibilità diverse
La latitanza nell’affrontare temi cruciali e l’occhio rivolto al passato della teoria dello sgocciolamento che caratterizzano la visione della Giunta regionale incarnata nel Defr si tengono insieme. La sostanziale abdicazione a dare vita a politiche in cui l’impresa non sia centrale dà luogo a uno strabismo che non consente di mettere a fuoco le criticità dell’Umbria né di pensare una regione diversa. Se coesione sociale, ambiente e digitalizzazione, con tutti i corollari che ne conseguono e che sono nominati migliaia di volte nei documenti dell’Ue (lotta alla povertà, alla dispersione scolastica, politiche di genere e quant’altro); se tutto questo prendesse il centro della scena e rendesse l’impresa una variabile dipendente e al servizio dell’evoluzione del sistema, e non il perno dello stesso, allora la Regione sarebbe costretta a pensare politiche davvero innovative, piuttosto che solo a mettere a proprio agio l’impresa. Invece succede che le risorse per il capitolo “sviluppo sostenibile e tutela del territorio” sono in una percentuale che oscilla intorno all’1 per cento del totale degli oltre due miliardi di spese previste, lo stesso avviene per “istruzione e diritto allo studio” e “diritti sociali”. È il frutto di scelte che si affidano al ruolo salvifico dell’impresa e si basano sull’assunto datato che più profitto equivalga a più benessere. Ma in Umbria sono i dati a sconfessare un’attitudine del genere e a consigliare piuttosto di coltivare l’idea che sia il pubblico a doversi curare con analisi, investimenti e pratiche innovative del bene comune, che va molto al di là di quello dell’impresa. Per essere chiari, al limite del didascalico: al centro del Defr poteva essere posta la svolta (sì, svolta, non spruzzate di) green e sociale di una regione afflitta. Cioè programmi di riscatto autentici, e non elemosina, per persone povere, disoccupate, precarie e per le marginalità in genere; rigenerazioni urbane attraverso il recupero di patrimoni pubblici e privati lasciati in un degrado insopportabile facendo leva sulla partecipazione e sul protagonismo delle persone che ci vivono intorno; il varo di infrastrutture per una rete di trasporto pubblico che incentivi davvero a inquinare di meno con le auto private; un piano per il passaggio alle energie rinnovabili con obiettivi ambiziosi di abbattimento delle emissioni inquinanti; la tutela idrogeologica dei territori con il varo di programmi pubblici di manutenzione e recupero; l’attivazione di servizi innovativi, utilizzando il digitale che spesso consente di abbattere barriere spaziali e temporali, per le aree interne a rischio spopolamento di cui l’Umbria pullula; la progettazione di strutture in rete con le due Università regionali e centri di eccellenza italiani ed europei, per il trasferimento di competenze alle imprese. Tutte cose di cui l’impresa non si occupa, e per le quali servono altri soggetti.
Stiamo squadernando un libro dei sogni? No. Ci sono possibilità di fare altrimenti? Sì. Per fare un esempio concreto, il Defr dell’Emilia Romagna si apre con il “Patto per il lavoro e per il clima”, e a pagina 22 vi si legge che «la prima scelta è quella realizzare un investimento senza precedenti sulle persone, innanzitutto sulla loro salute, così come sulle loro competenze e sulla loro capacità» (corsivo nostro, ndr). A “economia solidale”, “parità di genere” e “sviluppo sostenibile” sono dedicati capitoli appositi, e la Regione presenta anche la sua “nuova strategia di specializzazione intelligente di ricerca e innovazione”. Sono questioni che l’Umbria dovrebbe affrontare in maniera ancora più impellente dell’Emilia Romagna, e che invece qui vengono lasciate sullo sfondo in attesa dello sgocciolamento, mentre tutto gira intorno all’impresa, autentico sole di questo microcosmo che si autocondanna a essere periferico.