C’è un conflitto aperto tra imprese e ambiente, e quindi tra imprese e salute delle persone. È un fenomeno che entro certi limiti è fisiologico, poiché ogni attività umana dissipa sostanze o ne emette di inquinanti. Però se si mettono in fila dati, studi, episodi e dichiarazioni di figure istituzionali emerge una realtà di cui invece sfugge la pesantezza se ci si limita a esaminarla in maniera parcellizzata. Ne ha preso coscienza anche il Consiglio regionale dell’Umbria, che nei giorni scorsi ha approvato una mozione proposta da Pd, M5S e Gruppo misto per dichiarare «lo stato di emergenza climatica e ambientale». Alla gravità delle parole però, non conseguono atti immediati e proporzionati, bensì generici impegni ad «attivare ogni possibile contributo e iniziativa per contribuire a contenere l’aumento della temperatura globale». Una locuzione che privata della previsione di misure da adottare, vincoli e tempi certi, può voler dire tutto e, con maggiori probabilità, niente.
La genericità della mozione ha consentito che venisse approvata all’unanimità da tutte le forze presenti in Consiglio. Ma evitare il merito delle questioni, oltre a scongiurare divisioni tra le forze politiche ha consentito di aggirare l’ostacolo, che è appunto quello del conflitto tra le imprese e il loro modo di produrre e l’ambiente, cioè il nostro ecosistema. Un rapporto tra polarità contrapposte sempre più squilibrato a sfavore della salubrità che spesso si arricchisce di un terzo protagonista, la criminalità, che contribuisce all’ulteriore squilibrio.
Il fenomeno delle attività organizzate finalizzate
all’illecito trattamento dei rifiuti è rilevante,
e gli incendi agli impianti sono sempre più frequenti
La Direzione distrettuale antimafia dell’Umbria ha dichiarato davanti alla commissione parlamentare sulle ecomafie che «il fenomeno [delle] attività organizzate finalizzate all’illecito trattamento dei rifiuti è abbastanza importante e rilevante». E ha fatto capire che se si tratta di una realtà ignota ai più è perché «in passato, non si era data particolare attenzione al fenomeno, ma negli ultimi anni […] c’è stato un maggiore impulso anche da parte delle forze di polizia, e quindi situazioni che in passato non erano state compiutamente attenzionate da parte dell’autorità giudiziaria sono emerse».
La questione è tornata d’attualità con l’ultimo incendio a un deposito di rifiuti che si è scatenato nella regione, alla Ferrocart di Terni, domenica 20 febbraio. Tre anni fa, il 10 marzo 2019, era sempre di domenica, prese fuoco il deposito della Biondi a Ponte San Giovanni. In uno studio dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione ambientale), l’Arpa dell’Umbria ha fornito i materiali di studio e rilevazione degli agenti inquinanti per quattro eventi del genere nel periodo 2016-2020. Sono andati a fuoco rifiuti ingombranti e plastiche, carta da macero e rifiuti urbani con conseguenti ordinanze di chiusure di scuole, di divieto di ingerire ortofrutta coltivata nelle aree limitrofe e inviti a tenere chiuse le finestre. Nell’estate del 2009 alla Ecorecuperi di Vascigliano di Stroncone bruciarono per giorni rottami d’auto e plastiche, nel 2013 toccò alla Mit di Terni, e per due volte, prima nel 2015 e poi nel 2018, bruciarono gli pneumatici accatastati alla Terni energia di San Liberato, a Narni. In tutti questi casi sono state aperte inchieste per accertare l’eventuale dolo. Al di là di questo però, sono da evidenziare due fattori: il primo è che «il fenomeno degli incendi di natura dolosa ai danni di impianti dediti alla gestione dei rifiuti» è venuto assumendo «sempre maggiore rilevanza», come dicono i carabinieri forestali davanti ai parlamentari della commissione sulle ecomafie. Il secondo è che già nella “Relazione sul fenomeno degli incendi negli impianti di trattamento e smaltimento di rifiuti” della commissione sulle ecomafie della scorsa legislatura si è rilevato come spesso «l’incendio è stato occasione per accertare altri reati ambientali derivanti da irregolarità nella gestione degli impianti». Nel caso dell’incendio alla Biondi di Ponte San Giovanni del 2019, ad esempio, l’amministratore della società è stato deferito all’autorità giudiziaria per irregolarità ambientali. Nel caso dell’incendio di Vascigliano di Stroncone invece, dopo una condanna in primo grado ai danni del presidente dell’azienda che gestiva il sito, che era stato accusato pure lui di irregolarità, in secondo grado la difesa è riuscita a dimostrare la dolosità dell’incendio e quindi l’innocenza dell’imprenditore.
Tutto questo avviene in una regione in cui è stato celebrato un processo per illecita gestione degli impianti che ha portato al cambio dei vertici di Gesenu, la società che gestisce raccolta e smaltimento dei rifiuti in gran parte della provincia di Perugia. E che ha portato gli abitanti di Pietrafitta a costituirsi in comitato per portare alla luce la questione delle ceneri di scarto della centrale termoelettrica dell’Enel. Le ceneri, come hanno rilevato i carabinieri, sono state utilizzate anche «per realizzare rilevati di incerto utilizzo». Altre sono state interrate, e su di esse «venivano effettuate coltivazioni agricole che sono state poi interrotte». I sopralluoghi di Arpa e Asl hanno evidenziato «come conseguenza ambientale dell’interramento delle ceneri, una contaminazione delle acque sotterranee». Il coordinatore del comitato ha riferito alla commissione ecomafie che ad averlo spinto all’azione «è stato soprattutto vedere nel mio centro abitato scomparire le persone con troppa velocità. Scomparire vuol dire che erano morte o malate, finché non ha colpito anche la mia famiglia. Io ho un morto, malato di leucemia, e una sorella malata di cancro. Chiaramente, i documenti sono stati tutti consegnati prima ai sindaci e poi alla procura. A portarmi a quest’atto è stato soprattutto questo. È tutto da dimostrare, ma credo che 40-50 morti su 40 famiglie nel giro di venti o trent’anni siano troppi per un piccolo centro abitato a ridosso della centrale di Pietrafitta».
La procura di Spoleto si trova ad affrontare
forme di illegalità diffusa. A Terni è stato aperto
un fascicolo sulle criticità ambientali
Ma non basta. Sono innumerevoli i casi di imprese che danneggiano l’ambiente. «La procura di Spoleto – si legge nella Relazione sull’Umbria della commissione parlamentare sulle ecomafie – si trova ad affrontare forme di illegalità diffusa», e i «procedimenti penali in materia ambientale e paesaggistica sono in crescita esponenziale». Anche i lavori di bonifica della Umbria Oli, teatro di un tragico incidente in cui nel 2006 persero la vita quattro lavoratori, hanno portato a un procedimento per «falso ideologico e materiale, frode nelle pubbliche forniture e indebita percezione di erogazioni in danno della regione». E poi discariche abusive, sequestri di allevamenti di trote sul fiume Nera per danneggiamento delle acque, amianto interrato nelle campagne marscianesi e sversamenti nei torrenti Marroggia, Clitunno, Teverone e Attone che hanno dato luogo «all’accertamento dell’immissione nelle acque dei correnti, di reflui provenienti da aziende agricole vicine con innalzamento dei valori limite».
La procura di Terni ha aperto una sorta di fascicolo madre sulle criticità ambientali nella conca ternana che investe l’area ricompresa tra i comuni di Terni e di Narni per «imbastire un’indagine conoscitiva sulle realtà aziendali che presentano attività di lavorazione dal forte impatto ambientale e di accertare eventuali fonti di inquinamento scaturite da processi industriali». Nel territorio del secondo capoluogo dell’Umbria c’è uno dei 42 siti italiani di interesse nazionale (Sin) da bonificare. Si tratta dell’area Terni-Papigno, 665 ettari, un’acciaieria in attività, due inceneritori, impianti per la produzione di energia idroelettrica e una discarica per rifiuti speciali, tra le altre. Nell’area, secondo quanto rileva il ministero della Transizione ecologica, «sono presenti principalmente fenomeni di inquinamento delle acque di falda soprattutto da metalli». Ma nonostante il perimetro del sito sia stato definito con decreto del ministero dell’Ambiente già nel 2002, dopo vent’anni il procedimento di bonifica è ancora tutto da realizzare. Lo studio Sentieri rileva peraltro una mortalià sul territorio del 10-20 per cento superiore alla media, anche se da quello studio non si è in grado di stabilire una correlazione scientifica di causa-effetto tra inquinamento e mortalità. Da qui l’invito della commissione parlamentare sulle ecomafie «alle amministrazioni pubbliche e agli
organismi di controllo» affinché si approfondisca «mediante studi mirati la presenza di patologie riconducibili all’inquinamento ambientale».
Ci sono siti pericolosi a ridosso
dei centri abitati, ma le istituzioni
non riescono a delocalizzare gli impianti
In Umbria, al Sin Terni-Papigno si aggiungono gli 11 siti industriali definiti «a rischio rilevante» a causa del fatto che stoccano sostanze pericolose in quantità notevoli. Si tratta di impianti che nonostante siano potenziali produttori di rischio ingente, si trovano spessissimo a poche centinaia di metri non solo dai centri abitati ma anche da scuole materne, come succede a Todandrea di Assisi col deposito della Umbria Gas. Si tratta di un altro fattore di conflitto tra imprese e territori e persone che è ben riassunto dalla impotenza di istituzioni assai deboli contenuta nelle parole che l’allora vicesindaco di Perugia, Urbano Barelli, pronunciò di fronte ai parlamentari che gli chiedevano lumi, in seguito all’incendio del 2019 alla Biondi recuperi, sulla contiguità dell’impianto al centro abitato. «Biondi Recuperi è in quella zona da quarant’anni e intorno è cresciuta una zona industriale, quindi ci sono previsioni urbanistiche che sono molto datate. […] C’è una dimensione urbanistica consolidata negli anni, quindi possiamo dire un diritto acquisito, di quella società di essere lì. […] È possibile rivedere la destinazione urbanistica? Ovviamente tutto è possibile, compatibilmente con il diritto acquisito della Biondi Recuperi, che da quarant’anni è lì. […] Il problema delle delocalizzazioni è un problema delicatissimo. In passato il comune di Perugia ha provato a delocalizzare la distilleria Di Lorenzo, impianto classificato a rischio incidente rilevante, ma all’epoca, da quello che mi è stato riferito, nel territorio del comune di Perugia non è stata trovata una zona che avesse una distanza di rispetto dalle abitazioni di 800 metri, come prevedeva e prevede ancora la legge regionale». La locuzione diritto acquisito (dell’azienda) compare due volte in questa dichiarazione, che informa anche di una legge regionale (varata nel 2000, ndr) che prevede la distanza di almeno 800 metri tra certi impianti e i centri abitati. E che in moltissimi casi non è evidentemente rispettata. Alcune volte per difficoltà oggettive, altre per diritto acquisito, altre chissà perché. Un’altra prova del conflitto tra imprese, modo di produrre e diritti delle persone sul quale le mozioni all’unanimità senza la previsione di misure, vincoli e tempi certi di applicazione risultano utili quanto un lampione spento.