Umbertide e Città di Castello sono assurte alla cronaca nazionale per il fenomeno delle baby gang. La vicenda di gruppi di giovani e giovanissimi di Umbertide e Città di Castello, alcuni dei quali minorenni, che si sono ritrovati alla stazione per sparare in aria con una pistola (probabilmente da softair), salendo nel treno con il volto coperto da un passamontagna, o dandosi appuntamento al Parco Ranieri di Umbertide per dare vita a risse e scontri, sta destando timore e preoccupazione. Ma come si deve leggere questo fenomeno? Ne parliamo con Aldo Manuali, pedagogista e giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Perugia, che da sempre lavora con i giovani e per i giovani.
Cosa sta succedendo?
«Mi viene da dire… nulla di nuovo; da sempre noi adulti abbiamo avuto bisogno di etichettare i giovani come diversi da noi, penso a: “Questa gioventù è marcia nel profondo del cuore. I giovani sono maligni e pigri. Non saranno mai come la gioventù di una volta”. Questa è un’incisione su un vaso d’argilla dell’antica Babilonia 3000 anni prima di Cristo. Oppure, “Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico. I ragazzi non ascoltano più i loro genitori: la fine del mondo non può essere lontana”. Affermazione di un sacerdote dell’antico Egitto: 2000 a.C. Ancora? “Non c’è più alcuna speranza per l’avvenire del nostro paese se la gioventù di oggi prenderà il potere domani, poiché questa gioventù è insopportabile, senza ritegno, spaventosa”: Esiodo, 720 a.C. E così via fino a oggi, dove ministri della Repubblica li hanno appellati “bamboccioni”, hanno chiesto loro di “non essere troppo choosy”, fino a definirli disimpegnati, tranne poi, quando si sono giustamente rivoltati contro le morti dei loro due coetanei per uno stage nell’alternanza scuola-lavoro, li abbiamo bastonati in piazza. Credo che ci sia poco da aggiungere».
A cosa si richiama questo tentativo di etichettarli?
«Lo stigma è la misura della rinuncia a un percorso educativo. D’altronde se un giovane viene considerato un delinquente, un deviato, poi si comporterà come tale. Di fronte ai fatti accaduti in questi giorni a Umbertide, gli adulti hanno reagito con paura; da più parti e soprattutto sui social si è parlato di introdurre misure forti, di repressione, ma questa è la risposta apparentemente più facile: di fronte a situazioni complesse, le soluzioni semplici non risolvono i problemi, ma li amplificano. La questione invece va affrontata dalle radici perché se noi adulti ci fermiamo a colpire gli effetti e rinunciamo a capire le cause che portano un adolescente a fare il bullo, o ad assumere comportamenti violenti, non possiamo pensare poi di ridurne gli effetti. Gli episodi eclatanti li puoi rimuovere per un po’ di tempo, ma poi sono destinati a riprendere»
L’adolescenza è una fase complessa, ma nell’accezione comune sembra una sorta di malattia che prima o poi passerà.
«Mi viene da risponderti con una provocazione: l’adolescenza non esiste, esistono però gli adolescenti e le diverse adolescenze. L’adolescenza è sempre una storia unica, irripetibile, personale. È di uso comune dichiarare che l’adolescenza rappresenti il passaggio dall’infanzia all’età adulta e che questa fase appartiene a ogni persona generalmente tra i 12 anni ai 19-20 anni d’età, ma così non è».
Chiarisci questo concetto.
«L’adolescenza non è una fase biologica come comunemente si intende, ma una fase storico-culturale. Margaret Mead ce lo ha insegnato già dai suoi studi del 1920 nelle società primitive dell’isola di Samoa, affer mando che “il disagio adolescenziale è appreso, originato da aspetti culturali e non biologici”. Studiando nei primi anni ́20 la partecipazione alla vita quotidiana delle adolescen- ti samoane, si accorse che in queste società non esisteva il “conflitto adolescenziale”, i giovani, in particolare le giovani samoane, non percepivano questa particolare fase della vita come un momento traumatico. La vita umana era ancora divisa in tre fasi: l’infanzia, l’età adulta, che abitualmente iniziava con la pubertà fisiologica, e la vecchiaia. L’adolescenza moderna, che diventa fenomeno di massa, si sviluppa in Occidente con l’industrializzazione e lo sviluppo capitalistico della società, inizialmente solo nella classe borghese. Da quel momento, come ho appreso da uno degli uomini più importanti per la mia formazione, il professor Gerard Lutte, quando frequentavo la facoltà di psicologia a Roma, “l’adolescenza non viene programmata come si afferma abitualmente come fase di preparazione allo stato adulto in società complesse, ma come periodo di subordinazione, di emarginazione, di privazione arbitraria di diritti umani fondamentali, ma non per il bene dei giovani, ma per il profitto di minoranze privilegiate”. Il “conflitto adolescenziale” quindi è generato dall’esclusione degli adolescenti dalle scelte importanti, anche da quelle che li riguardano direttamente. Il periodo che stiamo vivendo è complesso e l’adolescenza non potrà che essere a sua volta complicata: oggi essere adolescenti è più complicato di un tempo. Bastano alcuni dati su questa esclusione. “Save the Children” nell’ultimo report ci parla di emergenza adolescenti. Basta dire che in questi ultimi due anni è aumentato il suicidio tra i giovani, diventato la seconda causa di morte per la fascia di età tra 15 e 19 anni. Il 28 per cento dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni dichiara che, dall’inizio della pandemia, almeno un compagno nella propria classe ha smesso di frequentare la scuola. Tra le cause principali delle assenze, durante la Dad, ci sono la difficoltà di connessione e la mancanza di concentrazione. Stanchezza (31 pre cento), incertezza (17 per cento) e preoccupazione (17 per cento) sono i principali stati d’animo che gli adolescenti dichiarano di vivere in questo periodo. E sono in aumento esponenziale i cosiddetti “Neet” ovvero i giovani che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi formativi, hanno rinunciato a vedere un futuro».
Quali azioni concrete possiamo allora mettere in campo?
«Innanzitutto noi adulti dobbiamo cambiare il paradigma del pensiero, per primo: riconoscerli, che vuol dire ricordarsi che lo siamo stati anche noi adulti di oggi; ricordarsi delle emozioni, delle paure, delle incertezze e dei sogni che avevamo. Questo implica vederli come un’opportunità e non come un problema. Poi, di fronte a episodi come quelli accaduti in Altotevere, non rispondere con la repressione. Si inciderebbe solo sugli effetti, ma non sulle cause che hanno portato al problema stesso. Diversamente, vanno implementati gli spazi di condivisione, di co-progettazione, di relazione. Fare più comunità e non isolarli. I ragazzi non vanno confinati, ghettizzati, ma indirizzati, compresi e questo compito spetta agli adulti, a partire dalla famiglia che non va lasciata sola. Questo non significa che dobbiamo giustificare i gesti pubblicizzati nel video, ma bisogna perlomeno provare a capire i ragazzi e favorire percorsi di inclusione. E, non da ultimo, serve che la politica metta sul piatto le risorse necessarie per tornare a investire nelle politiche per gli adolescenti e i giovani. Non mi sembra che siano previste risorse adeguate nel Pnrr e il bonus psicologo è fumo negli occhi. Vorrei chiudere con una riflessione e una speranza. I ragazzi non sono il futuro del mondo ma l’oggi presente, abitano con noi, sono qui con noi, ma noi adulti li vediamo veramente, ci accorgiamo di loro solo quando finiscono in modo negativo nei giornali. La mia speranza, e questo è il mio impegno di uomo, padre e professionista, è che in un’epoca dove la pandemia ha inciso ed incide sulla psiche di tutti e dove il futuro appare più incerto per tutti noi, io colgo una opportunità: costruire tutti insieme una nuova socialità che accolga tutti, adolescenti compresi. Questa può apparire una utopia che a me piace pensare concreta».
F>oto dal profilo Flickr dell’Ifpri
Condivido quello che dici, caro Aldo. In più aggiungo alle tue riflessioni sulla “adolescenza”, che essa, nel lessico comune e sopratutto dei politici, si è prolungata all’infinito: quando si dice “i giovani” si comprendono tante fasce d’età, dai 15 ai 45/50 anni! Così si crea l’illusione che il futuro sia di là da venire, c’è ancora tanto tempo per prolungare la precarietà, per avere un lavoro dignitoso, crearsi una famiglia e … insomma diventare adulti!
Un caro saluto
Roberta P.