Ci sono un paio di generazioni nate e cresciute negli ultimi quarant’anni con una cappa intorno. Come se fossero circondate dai teloni del set del Truman Show e li confondessero col cielo. Buona parte delle altre generazioni, più anziane, ai teloni del Truman Show c’hanno fatto invece l’abitudine: se per quarant’anni ti dicono che quel telo è il cielo, rischi di finire per crederci, anche se il cielo, una volta, l’avevi visto per davvero.
La cappa – una vera e propria musica di sottofondo salmodiata sui giornali, nelle università, nelle scuole, sui posti di lavoro, a reti unificate in tg e talk show, e nella produzione editoriale – è costituita dalla cancellazione degli interessi di parte. A un certo punto cioè, ha cominciato a farsi avanti in maniera così pervasiva e assordante da essere diventata un luogo comune l’idea che siamo tutti nella stessa barca e che esistono gli interessi di tutti, non quelli legati a cosa ognuno e ognuna di noi è. Il solo mondo dell’arte – cinema, musica, letteratura, teatro – è riuscito almeno in parte a sottrarsi alla valanga, ma si è trattato di una opposizione fagocitata dalla presenza immanente della musica di sottofondo, apparentemente discreta ma spietata nel coprire tutto il resto.
Il mondo della politica ha amplificato questo salmodiare. Un po’ surrettiziamente, un po’ credendoci davvero, un po’ per viltà e conformismo, le scelte effettuate o le opposizioni agite si sono via via trincerate dietro gli interessi di tutti. Ma i tutti devono pur essere definiti; così, in una sorta di salto all’indietro di circa un secolo, essi sono stati fatti coincidere con coloro che hanno avuto la ventura di nascere all’interno di uno stato da persone nate a loro volta in quello stesso stato. Di qui le pose tardo ottocentesche o primo novecentesche dei sovranisti, vagamente grottesche per almeno due motivi: primo perché ci sono interessi che travalicano i sacri confini della nazione: quello alla salubrità dell’ambiente o, più prosaicamente, alla libera circolazione delle merci; secondo perché l’accento posto sugli interessi della nazione porta alle estreme conseguenze l’illusione che non esistano interessi di parte all’interno dello stesso stato, ma solo quelli di tutti. In questo senso, nel loro estremismo, i sovranisti aiutano a cogliere un fenomeno che va molto al di là di loro stessi. Rimanendo alla metafora della musica di sottofondo, è come se essi avessero agito sulla manovella del volume per alzarlo, ma la musica era già attiva prima della loro comparsa.
È di evidenza solare che l’obiettivo di un datore
di lavoro è retribuire la forza lavoro il meno possibile e produrre senza modificare gli impianti
È di una evidenza solare che l’obiettivo di un datore di lavoro è retribuire la forza lavoro il meno possibile e, al contrario, l’obiettivo di lavoratori e lavoratrici è quello di trarre il maggiore beneficio economico possibile dall’attività che prestano per il proprio datore. Così come è solare che l’interesse di una impresa a forti emissioni inquinanti è di continuare a produrre senza essere costretta a modificare gli impianti, cosa che gli costerebbe un esborso di denaro, mentre l’interesse della maggioranza della popolazione è volto al mantenimento della salubrità dell’ambiente. Nonostante la scontatezza di questi due esempi sia sufficiente a fare giustizia dell’illusione che si fonda sulla credenza che esista l’interesse di tutti, la musica di sottofondo gode di interpreti raffinati, che riescono a riportare ad uno l’interesse. Con un argomento formidabile: quello delle sorti dell’economia, cioè di tutti, che vengono fatte coincidere con gli interessi delle imprese.
Nell’ultima settimana ci sono stati due fatti che, di per sé e per alcune delle reazioni che hanno scatenato, possono aiutare a comprendere i canoni di questa musica di sottofondo, dell’azione dei loro interpreti e di come essa si propaghi in una maniera così impercettibile e melliflua da assumere quasi i tratti di un che di naturale. Entrambi i fatti hanno a che vedere con proposte che arrivano dall’Europa. Una è quella della istituzione di un salario minimo, l’altra è quella della messa al bando delle auto con motori alimentati a combustibili a partire dal 2035.
Il salario minimo è il riconoscimento per chi lavora di una soglia sotto la quale la retribuzione non può spingersi. La sua premessa non sta nell’idea di voler danneggiare le imprese, bensì nel fenomeno che vede molte persone, pur lavorando a tempo pieno, non riuscire a guadagnare cifre che consentano un’esistenza dignitosa. Lo stop alla possibilità di vendere in Europa, dal 2035, auto con motori alimentati con carburanti derivanti da petrolio e gas si fonda sulla consapevolezza che senza una drastica riduzione delle emissioni inquinanti diventa a rischio la stessa permanenza della specie umana sulla Terra. In entrambi i casi l’illusione dell’esistenza dell’interesse di tutti fa la fine del sole al tramonto. Perché in entrambi i casi a un interesse, quello di chi lavora a una retribuzione decente e quello della specie umana alla sua sopravvivenza, si contrappongono altri interessi, quelli delle imprese che producono secondo gli attuali standard di retribuzione e di emissioni inquinanti.
L’interesse a pagare poco i lavoratori e quello di continuare a produrre secondo schemi non sostenibili, vengono fatti coincidere con quelli dell’economia tout court
Ma qui entrano in gioco la pervasività della musica di sottofondo e la destrezza dei suoi interpreti. Perché l’interesse a pagare poco i lavoratori e quello di continuare a produrre secondo schemi non sostenibili, invece che essere descritti come di una parte, vengono fatti coincidere con quelli dell’economia tout court. «Il salario e il lavoro lo danno le imprese, l’unica strada che abbiamo davanti è ridurre il costo del lavoro», dice Maurizio Lupi, parlamentare con un passato in Forza Italia e un presente in una formazione minore, a proposito della proposta di salario minimo. «È stata una decisione ideologica e ho sperato fino all’ultimo che prevalesse la preoccupazione per le ricadute negative sull’occupazione. È mancata la consapevolezza del momento che stiamo vivendo. Di fronte alla sacrosanta e legittima ricerca di un mondo ambientalmente compatibile non sono state prese in considerazione le richieste per percorsi più lenti che ci consentissero di affrontare meglio questo delicato passaggio verso il green», dichiara il leghista Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, sulla questione dello stop alle auto alimentate a combustibili. A proposito dei percorsi più lenti invocati da Giorgetti, va sottolineato che il blocco alle auto con motori a benzina, gas e diesel agirebbe dal 2035, le imprese avranno cioè più di dieci anni per adeguarvisi. Ma insomma, l’impresa (qualsiasi tipo di impresa) è il sole attorno al quale si muove il nostro sistema, guai a toccarla, secondo Lupi, anche se non paga a sufficienza. E un mondo ambientalmente più compatibile dove la specie umana sia in grado di sopravvivere è una richiesta «sacrosanta» che però retrocede di priorità rispetto alla necessità di sopravvivenza delle imprese, secondo Giorgetti, che, come da programma finisce per accomunare imprenditori e lavoratori sotto un unico interesse: quello di continuare a produrre auto con motori a scoppio. Gli esempi di queste capriole dialettiche potrebbero continuare, e per chi volesse approfondire la capacità retorica di far diventare un interesse di tutti quello di una parte ben definita, rimandiamo a questo link.
A suffragare l’idea che si tratti di retoriche volte alla difesa di interessi di parte, c’è un elemento non da poco. L’alimentazione dei motori delle auto con energia elettrica non garantisce di per sé la sostenibilità ambientale, poiché occorre vedere da quali fonti viene ricavata quell’energia: se esse continuano a essere di origine fossile, l’ambiente non se ne gioverebbe granché. Ma di tutto questo, cioè delle ragioni della sostenibilità, non si trova traccia nel discorso di Giorgetti, tutto vòlto ad accogliere «le voci degli imprenditori», che con una traslazione spericolata diventano quelle di tutti. Così come sta poco in piedi l’idea per cui le imprese che cercano lavoratori, e che quindi hanno mercato, come si dice in gergo, siano messe in crisi da una paga oraria, poniamo, di 10 euro. Le difese di Lupi, Giorgetti e della loro parte non fanno che confermare come dietro la retorica dell’interesse di tutti si nasconda quello dei pochi che essi rappresentano fingendo però di rappresentare tutti.
La musica di sottofondo, una volta intonata, si propaga allontanandosi via via dall’epicentro grazie a una solida catena di distribuzione garantita dai mass media. Il Sole 24 Ore, nell’edizione di giovedì 9 giugno, informava come ci fossero 70 mila lavoratori e 450 imprese a rischio. E nel nostro piccolo, il Corriere dell’Umbria, nell’edizione di venerdì 10 giugno, informava come in seguito alla decisione dell’Ue ci fossero mille posti di lavoro a rischio nella sola provincia di Terni. Si tratta in entrambi i casi di stime di parte che anche a non volerne contestare l’attendibilità, sono valide per l’oggi, non per il 2035-2036, quando il provvedimento di stop alla commercializzazione di auto con motori tradizionali entrerebbe in vigore, in un tempo in cui cioè, c’è da augurarsi che le imprese abbiano avuto modo di intraprendere il loro percorso di riconversione, sennò che imprese sono? Ma la drammatizzazione, il puntare a togliere il respiro per non ragionare, è un altro degli ingredienti di cui si nutre la cappa della retorica dell’interesse di tutti per riprodurre se stessa giorno dopo giorno, con un anelito all’infinito.