Una lavoratrice di "Ceramoiche Noi", fabbrica di Città di Castello
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Padroni del proprio lavoro

 

Questo articolo è stato pubblicato nel numero di dicembre di Micropolis, il mensile abbinato a il manifesto in edicola ogni primo mercoledì del mese

Quando da via Carlo Marx svoltiamo a destra per entrare nel parcheggio davanti al capannone sono passate da poco le 16 di un pomeriggio autunnale bigio che sta già volgendo allo scuro. La poca luce residua consente ancora di scorgere il cartello “Ceramiche Noi” posizionato al limitare della recinzione, in modo che sia visibile dalla strada che taglia diritta in due la zona artigianale e commerciale che si spalma sul versante nord di Città di Castello, nella frazione di Cerbara. Nella penombra, una volta scesi dalla nostra auto, scorgiamo persone che salgono nella loro. Una volta varcata la soglia, l’ampio stabilimento ci accoglie oscuro. I neon posizionati sul soffitto sono rigorosamente spenti. Solo in fondo a sinistra c’è un’isola illuminata. Lì, intorno a un disco del diametro di 4-5 metri che ruota e su cui girano dei piatti, sono al lavoro tre donne e un uomo che prendono in mano i manufatti e li esaminano da vicino, uno a uno, per vagliare eventuali imperfezioni. Poco dietro di loro incombe la sagoma di un grande forno.

La felpa e il tatuaggio

Marco Brozzi viene incontro ed entra nel cono di luce, ha indosso la felpa con logo e nome dell’impresa. Sotto, da qualche parte sulla pelle, ci dev’essere il tatuaggio col nome e lo slogan che gli undici socie socie hanno deciso di imprimersi quando è iniziata questa storia: «Tutti per uno, un sogno per tutti». Brozzi è il presidente della cooperativa di lavoratori e lavoratrici che ha rilevato la fabbrica nella quale lavorano con cui abbiamo fissato l’appuntamento. Mentre ci stringiamo la mano gli facciamo notare che loro sono ormai diventati delle star, cercati da giornali e tv di tutta Italia. Lui sorride e conferma: «Sono appena andati via quelli di Tagadà (programma pomeridiano di La7, ndr), abbiamo fatto un collegamento in diretta». Intuiamo che erano loro quelli che salivano in auto per andare via mentre noi arrivavamo. Poco dopo, nel piccolo ufficio separato dall’area produttiva da un pannello in vetro e plexiglas che attutisce i rumori, Lorenzo Giornelli, direttore commerciale e amministratore della cooperativa, ci spiegherà che l’argomento sul quale sono stati interpellati in trasmissione è quello relativo alla questione dell’energia.

La ribalta

Già, il caro-energia. È il secondo motivo che ha portato questa cooperativa alla ribalta della stampa nazionale. Prima c’è stata la storia dei lavoratori che hanno rilevato l’impresa dall’ex datore di lavoro per sventarne la delocalizzazione in Armenia, poi quella del risparmio energetico, con i turni anticipati in piena estate a prima dell’alba per cercare di consumare di meno, visto che i costi erano schizzati su all’inverosimile. Ne hanno parlato il Corriere della Sera e I fatti vostri, il Tg1 e il Tgr. Sembra passata una vita da quando gli undici lavoratori che erano rimasti hanno investito la loro liquidazione per rilevare l’azienda, diventare padroni di se stessi, e conservare così il posto. Invece era solo l’estate del 2019. In poco più di tre anni sono passati dall’orlo sul baratro della disoccupazione all’essere invitati a Bruxelles in rappresentanza delle imprese italiane per partecipare al “Forum europeo sull’occupazione e i diritti sociali” organizzato dalla Commissione dell’Ue, e parlare nella prima giornata dedicata a “La dimensione sociale della transizione verde”. «C’erano 480 persone, prima di me ha mandato un messaggio la presidente Ursula von der Leyen che era collegata da Bali, dove si stava svolgendo il G20, poi ha parlato il commissario per l’occupazione Nicolas Schmit», dice Giornelli con un’espressione che lascia ancora trasparire l’emozione. A Bruxelles quelli di “Ceramiche Noi” hanno portato il punto di vista di imprese manifatturiere che hanno visto decuplicare il prezzo del metano: «Avevamo una spesa di 182 mila euro l’anno; per il solo mese di settembre ci è arrivata una bolletta di 127 mila euro – dice Brozzi -. Adesso siamo passati al gpl, ma è come ritornare indietro di dieci anni, perché è un combustibile che inquina, così stiamo lavorando a un progetto per passare all’idrogeno, ma ci vogliono tempo e soldi». Due milioni, all’incirca, per diventare autonomi e sostenibili dal punto di vista energetico. Eccola, la transizione. «Non è facile, servono i pannelli fotovoltaici per produrre l’idrogeno, e poi tutto il necessario per utilizzarlo in produzione alimentando un forno che deve raggiungere oltre mille gradi per poter cuocere la ceramica, e alla fine occorre sperare che tutto si incastri alla perfezione», aggiunge Giornelli. Tutto questo è stato detto oltre che nel discorso pubblico anche in privato, a Schmit. E tutto questo fa capire anche come sia stato possibile che la presidente della Commissione Ue abbia scelto proprio “Ceramiche Noi”, come esempio di resilienza nel suo discorso sullo stato dell’Unione al Parlamento Ue dello scorso settembre. Le luci spente per risparmiare energia in attesa dell’idrogeno che verrà la spiegano bene, la resilienza.

La storia di un capovolgimento

Ma la vicenda di “Ceramiche Noi” va molto oltre la resilienza, è un vero e proprio capovolgimento di senso. Questa è un’impresa che in mano a un imprenditore tradizionale stava andando in malora, e per il cui salvataggio era stata presa la decisione più semplice, che sarebbe ricaduta sulla pelle dei lavoratori: delocalizzare dove il lavoro costa meno. La solita strada consunta, il solito modo di far prevalere le ragioni dell’azienda su quelle delle persone che l’hanno mandata avanti per anni; i soliti costi che l’imprenditoria fa diventare sociali per mancanza di visione. Invece da lì inizia una storia che è la dimostrazione del capovolgimento e di come soluzioni presentate come imprescindibili e senza alternative possono essere scartate. Quando gli hanno comunicato che c’era da smontare tutto per riallestire in Armenia a andare a caccia di lavoro a basso costo, Brozzi, che era direttore dello stabilimento, confessa di non averci dormito per diverse notti. Qui dentro c’era una storia, un sapere diffuso. L’incontro con Andrea Bernardoni, responsabile economico di Legacoop Umbria, e col sindacalista della Cgil, Euro Angeli, fanno da innesco. «Siamo venuti a conoscenza della legge Marcora, che istituisce un fondo per l’occupazione per chi dà vita a imprese cooperative tra dipendenti di aziende in crisi, Bernardoni ci ha seguito durante tutto l’iter, ed eccoci qua», dice Brozzi. È stato trovato l’accordo con l’ex proprietario, che alla fine se n’è andato in Armenia. Mentre i lavoratori e una parte dei macchinari sono rimasti qui. Produttivi. Il percorso non è stato semplice. Sulle prime non tutti erano d’accordo. Ma poi si è partiti. Undici soci, tutti i lavoratori. E adesso, a tre anni e mezzo di distanza, i lavoratori da 11 sono diventati 22. Un incremento occupazionale che è lo specchio di un aumento del fatturato. «Nei sei mesi di esercizio, dall’agosto del 2019, abbiamo fatto 500 mila euro di fatturato, quest’anno lo chiuderemo con due milioni».

Lavoro e competenze

A ripercorrere la storia, Brozzi si passa una mano sul viso. «Sapevamo che era difficile – dice – ma dopo appena sei mesi che avevamo costituito la cooperativa e iniziato la produzione ci siamo ritrovati col covid, e mentre ne stavamo uscendo abbiamo visto lievitare i costi dell’energia in maniera spropositata». Eppure «non è mai saltato un mese di stipendio», e i dati su occupazione e fatturato sono incontrovertibili. «Abbiamo fidelizzato la clientela che c’era già e abbiamo acquisito altre commesse», dice Giornelli. Si lavora quasi esclusivamente esportando per grandi marchi del lusso che possono permettersi di ammortizzare anche un incremento dei prezzi. «Abbiamo aumentato del 15 per cento e per il momento non ne abbiamo risentito», spiega ancora Giornelli che aggiunge: «Lavorare su fasce alte in questi casi aiuta, ma è chiaro che superato un certo limite rischi di andare fuori mercato». Questo è stato detto al commissario Ue nei colloqui privati, e lui si è mostrato del tutto conscio delle difficoltà, anche perché l’aumento dei prezzi per il trasporto di merci e materie prime che prima venivano facilmente reperite da altri continenti sta riportando al centro delle questioni la produzione europea. E questo tipo di argomentazioni acquistano una forza maggiore, se portate da persone che prima hanno avuto la visionarietà necessaria per intuire delle possibilità dove l’ex proprietà scorgeva solo dei pericoli, e ora puntano a dribblare i costi dell’energia decidendo di investire sull’idrogeno per far diventare la loro impresa definitivamente pulita da un punto di vista ambientale, autonoma da quello energetico, e quindi anche ben più concorrenziale sul mercato.

La domanda

Non c’è in ballo solo l’efficienza, però. Alla fine di questa storia emergono delle domande. Perché siamo immersi in una bolla conformista che vede nell’imprenditore tradizionale il salvatore dell’economia, l’unico attore che conti davvero: tutto il resto sarebbe intercambiabile, come mostra la pratica della delocalizzazione che la vicenda di “Ceramiche Noi” si incarica di smontare pezzo a pezzo. L’idrogeno è una via che pochissime aziende in Umbria e in generale in Italia stanno decidendo di percorrere. Qui invece siamo in presenza di persone che da semplici lavoratori e lavoratrici hanno rilevato la loro azienda, che a quanto pare era molto più loro di quanto poteva sembrare in precedenza, e che in forma cooperativa stanno percorrendo strade nuove per superare difficoltà di fronte alle quali molti presunti capitani d’industria si sarebbero già fermati da tempo. “Ceramiche Noi” non è solo una bella storia, ma un diverso modo di pensare e di agire. Un modo che il racconto conformista non vede e che è utile far emergere. Basti pensare che se fosse stato per il vecchio proprietario, oggi in via Carlo Marx, a Cerbara, ci sarebbe stato l’ennesimo capannone silente, svuotato di macchinari, persone, saperi e storie che invece continuano a vivere grazie al fatto che undici lavoratori e lavoratrici hanno rifiutato il racconto conformista nel quale siamo immersi. «La legge Marcora è una possibilità importante, ci fa piacere se grazie a noi altri lavoratori di aziende in crisi ne possano venire a conoscenza», chiosa non a caso Giornelli.

Foto dal sito internet di Ceramiche Noi

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