Le primarie a due facce che hanno eletto Elly Schlein segretaria del Pd sono state la dimostrazione plastica del paradosso che quella formazione rappresenta. Il risultato del voto nei gazebo andato in direzione contraria a quello dei tesserati nei circoli ha squadernato, in qualità e quantità, un partito disconnesso dal suo stesso elettorato: 150 mila tesserati e la vittoria di quella che può essere definita la vecchia guardia da un lato, contro più di un milione di persone comuni e una faccia pressoché inedita dall’altro. Tanto che la battuta che circola in queste ore è che il Pd sia capace di perdere anche le primarie. Non è più solo una questione di dirigenti, insomma: la maggioranza degli stessi (pochi) attivisti del Pd rimasti pare vivere anch’essa una realtà che non è quella della maggioranza delle persone che a quel partito guarda.
Il Pd è stato il frutto compiuto dell’incapacità, da parte della classe dirigente ex comunista, di distinguere il comunismo realizzato dalle istanze di liberazione delle persone, o anche più semplicemente di quella a stare meglio. Aver fatto coincidere l’uno con le altre ha portato, nel tentativo di esorcizzare quello che nell’89 è stato scoperto essere il male, a negare di fatto la stessa radice di una ricerca di trasformazione dell’esistente. È subentrata anzi una vergogna nel mostrarsi radicali, aggettivo che è stato fatto scivolare a sinonimo di sconvenienza, inopportunità. Ne è scaturita una omologazione che ha portato il Pd a schiacciarsi su un governismo a livello nazionale e su un’amministrazione fine a se stessa a livello locale che hanno di fatto espunto dal panorama qualsiasi speranza da parte delle persone comuni di poter cambiare in meglio le loro esistenze attraverso la politica. E da ciò è disceso, di fatto, un tacito invito all’arrangiatevi, diventato, secondo la dottrina neoliberista, siate imprenditori di voi stessi, che invece la destra ha utilizzato e rivendicato come slogan. Ciò ha fatto di quello che per lustri è stato un feticcio, il centrosinistra, un surrogato delle politiche di conservazione, che si è nutrito dell’ubriacatura globalista e delle infatuazioni per i Clinton e i Blair, i quali sono andati via via sostituendo i miti di gioventù di gran parte della dirigenza post comunista, andata poi a finire in braccio a Renzi, quello del Job’s Act.
Ma l’aver tentato di sotterrare le istanze di liberazione non le ha soppresse. Così un pezzo di popolo dei subordinati e delle subordinate ha finito per farsi egemonizzare dall’individualismo esasperato e dal comunitarismo escludente della destra, illudendosi di trovare lì una via. Un altro pezzo di quel popolo ha ripiegato su di sé o ha scoperto l’azione diretta e meritoria di fare politica al di fuori delle istituzioni: i mutualismi, le rigenerazioni urbane, i centri propulsori di cultura e di inclusione e coesione, l’ambientalismo che non coincide col giardinaggio da tempo stanno fieramente fuori dai circuiti della politica istituzionale di sinistra. Ma non trovando altrove una proposta istituzionale decente, neanche nella cosiddetta sinistra radicale che ha parecchio su cui riflettere, quel pezzo di popolo non ha mai smesso di guardare al Pd nonostante esso diventasse sempre più inguardabile.
Il paradosso del Pd sta insomma nel suo aver contribuito a deformare le ragioni stesse di una politica trasformativa per diventare vacuamente maggioritario, ma nonostante questo nel continuare a saper catalizzare suo malgrado – e anche per incapacità altrui – le istanze di una trasformazione dell’esistente.
L’elezione di Elly Schlein ne è la dimostrazione plastica e il suo significato va al di là della persona della neo segretaria. È un’Opa ostile dell’elettorato sul partito. E forse un’ultima occasione per il Pd, che chissà se avrà la forza per raccogliere una sfida che forse è più grande di lui, dei suoi piccoli capicorrente che non scompariranno con l’elezione di Schlein, e non smetteranno di stare trincerati dentro i loro palazzi, incapaci di guardare fuori per cercare di capire cosa succede.