Preparano pasti, accudiscono persone anziane e con disabilità, gestiscono strutture per minori, asili nido e centri di aggregazione, puliscono scuole e uffici pubblici, coadiuvano insegnanti nell’accompagnare alunni e alunne con difficoltà nel percorso scolastico, curano attività di doposcuola e molto altro ancora. Le lavoratrici e i lavoratori che operano nell’ambito della cooperazione sociale censiti dall’Istat sono quasi 9 mila in Umbria. La stragrande maggioranza di loro, quasi 6 mila, è impegnata in attività classificate come «sanità e assistenza sociale», circa 400 lavorano nel campo della ristorazione, spessissimo in ambito scolastico. Di queste attività, la quasi totalità è svolta in strutture di proprietà di enti pubblici che appaltano il lavoro sociale a questo tipo di realtà. Se nei siti internet delle cooperative si scorrono i settori e i luoghi di intervento, ci s’imbatte quasi regolarmente in centri per minori, centri diurni per persone disabili, residenze sanitarie assistite, cucine e strutture scolastiche per la cui gestione Comuni o Asl bandiscono gare d’appalto per l’affidamento di servizi che sono di altissimo valore sociale, poiché riguardano fasce della popolazione con particolari fragilità, o comunque sono inerenti ad attività che tengono letteralmente insieme una comunità.
Affidamento di servizi è una locuzione generosa, però. Perché spesso e volentieri le gare d’appalto bandite dagli enti pubblici non sono altro che la veste assunta da una esternalizzazione di attività che somiglia molto a quella delle imprese private che hanno bisogno di beni accessori per le loro produzioni e si rivolgono al mercato cercando chi offre il prezzo più basso. Solo che ci si aspetterebbe che un Comune che appalta il servizio di assistenza domiciliare per i suoi cittadini in stato di bisogno agisca secondo parametri differenti rispetto a una casa produttrice di auto che cerca un fornitore di tessuti per i sedili dei propri modelli. Invece troppo spesso la logica diventa quella di andare a caccia di qualcuno che faccia spendere il meno possibile e garantisca, dietro il corrispettivo più basso che sia possibile, di assumersi la responsabilità e le eventuali grane di un servizio che se svolto «in casa», direttamente dall’ente costerebbe di più.
La logica che porta al concetto di esternalizzazione più che a quello di affidamento di servizi ha una definizione: «ricerca del massimo ribasso», e ha anche una serie di vittime designate. In cima all’elenco ci sono lavoratrici e lavoratori, ultimo anello di una catena su cui si ripercuotono tagli di risorse e cecità politiche e amministrative, che sono chiamati a volte addirittura a sostituire persone che hanno svolto prima di loro lo stesso lavoro a una retribuzione maggiore. Poi ci sono le cooperative stesse, costrette a partecipare a gare di appalto a prezzi stracciati che ne riducono l’agibilità e ne menomano i bilanci. Infine, nel tritacarne rischia di finire l’utenza, e quindi la comunità stessa che invece su servizi sociali all’altezza dovrebbe fare leva per la propria tenuta complessiva. Perché la grande rimossa da questo tipo di gare di appalto è la qualità.
Il massimo ribasso è stato oggetto di più di un atto da parte della Assemblea legislativa dell’Umbria. Nel luglio 2021 è stata approvata una deliberazione sostanzialmente bypartisan che giudica «fondamentale non utilizzare formule legate al massimo ribasso, sia nella lettera che nella sostanza, per tutelare la qualità dei servizi e del lavoro» (corsivo nostro, ndr). Nel novembre 2022 è stata depositata una proposta di legge, anche questa sottoscritta da esponenti di diversi schieramenti, che punta a garantire «il rispetto dei diritti dei lavoratori, la legalità del mercato del lavoro, la qualità dei servizi di welfare». Anche il nuovo Codice degli appalti prevede all’articolo 108 che «i contratti relativi ai servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica», nonché quelli «ad alta intensità di manodopera», siano sottratti al criterio del massimo ribasso e stipulati secondo quello del miglior rapporto qualità/prezzo.
In verità, se si vanno a scorrere i capitolati delle gare d’appalto bandite recentemente in Umbria per questo tipo di servizi, il criterio del massimo ribasso non compare mai. Si fa sempre riferimento a quello del miglior rapporto qualità/prezzo; solo che poi, nella sostanza, a comandare è quasi sempre lui, il massimo ribasso, seppure sotto mentite spoglie. Ad esempio: l’Unione dei comuni del Trasimeno ha bandito di recente una gara per i servizi di assistenza domiciliare e di supporto scolastico nella quale la valutazione delle offerte prevede di assegnare un massimo di 80 punti alla cosiddetta offerta tecnica – cioè quella che verte sulla qualità del servizio che si intende offrire – e solo un massimo di 20 punti all’offerta economica. Però quest’ultima viene calcolata attraverso un meccanismo per cui, su una base d’asta di 3 milioni di euro, se – poniamo – ci fossero due concorrenti, uno dei quali presenta un ribasso a 2.950.000 euro e l’altro a 2.900.000, il secondo otterrebbe tutti i venti punti, mentre al primo ne andrebbero solo la metà. Cioè: 50 mila euro di differenza nell’offerta su 3 milioni, che sono l’1,6 per cento della base d’asta, sono in grado di determinare una differenza di punteggio del 50 per cento. Ancora: il Comune di Assisi ha messo a bando la gestione dell’asilo nido “Maria Luisa Cimino” per i prossimi cinque anni a una base d’asta di un milione di euro. Solo che si prevede di decurtare dalla cifra che sarà offerta dal vincitore dieci euro per ogni giorno di assenza di ciascun bambino/a e altrettanti per ogni utente che frequentasse l’asilo part time. E stiamo parlando di una gara in cui si fa riferimento all’impiego di sette persone a tempo pieno per gestire la struttura per il pagamento delle quali vengono destinati 23 mila euro lordi ciascuno, che equivale a uno stipendio netto annuale medio di 15 mila euro: 1.250 euro al mese senza neanche la tredicesima.
All’interno di un quadro che come si vede è pieno di criticità, si aggiunge il disequilibrio territoriale. Il bando per la ristorazione scolastica nelle scuole materna e primaria bandito dal comune di Castel Ritaldi, prevede una base d’asta di 4,95 euro a pasto. Quello analogo per il Comune di Marsciano parte da una base d’asta di 5,77 euro a pasto. Non si capisce come ci possa essere una differenza di quasi un euro a pasto tra due comuni della stessa regione che distano tra loro una quarantina di chilometri. Ma non è questa l’unica perplessità. Se si analizza il bando con la base d’asta più generosa, quello di Marsciano, si nota come per svolgere le attività necesssarie siano attualmente al lavoro un totale di 46 persone. Al netto dei part time, il monte ore è equivalente a quello che svolgerebbero 22 persone a tempo pieno. Dividendo la base d’asta del bando di gara, che è di 617.390 euro l’anno, per i 22 lavoratori e lavoratrici che si rendono necessari per l’espletamento del lavoro si avrebbero a disposizione 28 mila euro all’anno per ciascun dipendente. A quella cifra però, va sottratta la spesa per l’acquisto delle derrate alimentari necessarie a preparare i 107 mila pasti da somministrare nel corso dell’anno scolastico.
All’eloquenza di queste cifre va aggiunto che per i servizi di ristorazione scolastica le famiglie di bambini e bambine provvedono anche di tasca propria, cosa che quindi rende praticamente quasi a costo zero l’appalto bandito dai comuni. La compartecipazione alle spese peraltro si sta facendo largo anche per i servizi di salute mentale, cosa che di fatto rende la pratica una negazione del diritto alla salute sancito dalla Costituzione. Infine, da cinque anni non vengono adeguate le rette corrisposte a chi garantisce i servizi residenziali per i minorenni.
In un colpo solo insomma, mediante la pratica del massimo ribasso mascherato, si lesiona pesantemente l’assetto dei servizi di welfare, si minano i diritti di lavoratrici e lavoratori e si danneggiano attività imprenditoriali, come sono le cooperative sociali, che erogano servizi cruciali. Sono i frutti avvelenati della trasformazione in merce dei servizi sociali, trattati come se fossero il tessuto dell’interno di un’automobile. Si tratta di frutti che spuntano qua e là un po’ in tutta la regione, e sono indipendenti dal colore politico delle giunte al governo. Continua a succedere nonostante la massima assemblea regionale faccia petizioni di principio a cui però a livello territoriale fanno seguito atti che vanno nella direzione opposta.