Alle 1 e 23 minuti del mattino del 26 aprile 1986 a Chernobyl, in Ucraina, è avvenuta l’esplosione che ha provocato il più catastrofico incidente della storia dell’industria nucleare civile, le cui conseguenze continuano a pesare sulla vita di milioni di persone in Ucraina, Bielorussia e Russia. Terni è stata tra le prime città che hanno offerto una reale solidarietà a quei paesi. Sono migliaia i bambini e bambine, oggi diventati uomini e donne, che in quegli anni sono arrivati a Terni in Umbria per trascorrere le vacanze terapeutiche e sottrarsi per qualche mese alla morsa radioattiva delle loro città. Qualche tempo dopo abbiamo avuto occasione di visitare la città di Pripjat, distante quattro chilometri dalla centrale; la prima città completamente evacuata il 27 aprile in sole due ore, una città di 46 mila abitanti. L’erba cresceva ancora nelle fessure delle strade che costeggiavano le costruzioni deserte dalle finestre rotte. Uno scenario apocalittico, dal quale si staccava, nella sua fissità spettrale, la ruota del Luna Park, che doveva essere inaugurata il primo maggio del 1986, cinque giorni dopo l’esplosione. Da lontano, si aveva la strana sensazione di vedere le persone sopra di essa, come ibernate, in attesa che la ruota, simbolo della felicità dei bambini e dei ragazzi innamorati, ricominciasse a girare. Se il tempo si era fermato sul terreno, sulle case, nelle strade, non è stato lo stesso nei corpi e negli animi.
Oggi, purtroppo, il governo di destra in Italia continua ancora a parlare di nucleare, inserendolo nei suoi programmi di approvvigionamento energetico; come se, dopo Chernobyl, non ci fosse stato anche l’incidente altrettanto catastrofico di Fukushima, in Giappone. Ci vogliono far credere in un nucleare sicuro. A questo risponde il premio Nobel della fisica Carlo Rubbia che ha liquidato il nucleare di terza generazione «avanzata» come una «operazione di cosmesi»; e il proliferare di termini che vorrebbero accreditare una sicurezza che non c’è fa venire in mente la massima di Goethe: «Quando mancano i concetti nascono le parole». In ogni caso, di reattori Epr come quelli che l’industria di stato francese, Areva, voleva rifilare all’Italia e che a tutt’oggi l’azienda definisce nella home page del suo sito internet come «il primo della generazione “III+”», ce ne sono solo tre in costruzione in tutto il mondo: per il primo, «Olkiluoto-3» in Finlandia, era prevista l’entrata in esercizio entro il 2010 e un costo di 3,2 miliardi di euro; l’ultimo rinvio annunciato prevedeva la sua messa in parallelo per il 2018, e, nel dicembre 2012, il Wall Street Journal riportava che Areva prevedeva un aumento del costo a 8,5 miliardi di euro.
Vale la pena rilevare che le fusioni avvenute nei reattori di Fukushima, che sommate a quella di TMI e senza neanche metterci Chernobyl a causa della sua diversa tecnologia fanno almeno quattro, ridicolizzano le stime che l’Iaea avanzava ancora nelle conferenze di Columbus (Ohio) e di Roma del 1985, cioè dopo TMI: la probabilità di un danneggiamento grave con inizio di fusione, quello che in Italia all’epoca veniva pudicamente chiamato «rischio residuo», veniva confermata in 10-5– 10-6 reattori per anno (un incidente all’anno per ogni centomila/un milione di reattori funzionanti). Il dato di fatto (il numero di reattori in esercizio è cresciuto fino a un massimo intorno a quota 440) è invece un incidente di quel tipo ogni cinquemila reattori per anno, cioè venti volte più frequente rispetto alle stime Iaea del 1985. Questi numeri sono lo scheletro impietoso nell’armadio dei rapporti tra scienza, tecnologia, aspettative dell’uomo della strada, pressioni delle lobby e delle cricche, manipolazione della comunicazione, democrazia delle decisioni nella società tecnologica.
Una scelta giusta quella di ricordare ciò che accadde 37 anni fa a Chernobyl: di quel fatto la memoria va sbiadendosi e slabbrandosi, esattamente in coincidenza con la ripresa della campagna pro-nucleare (quello pulito però…) che ha trovato inaspettato vigore dall’aggressione della Federazione russa all’Ucraina.
Pietro Paolo Marconi ha più che un titolo per firmae l’articolo. Su quel tema ha molte cose da raccontare (e alcune ne accenna in questo scritto), a partire dalle centinaia di bambine e bambini della Bielorussia, dell’Ucraina, della Russia che trovarono in Italia (a Terni e in decine di altre località dell’Umbria) un po’ di sollievo dopo essere stati allontanati dai luoghi dove erano natꭡ e cresciutꭡ.