Il 17 maggio 2023 era un mercoledì, la Giunta comunale di Perugia decideva di «avviare un percorso di collaborazione istituzionale con la Cassa Depositi e Prestiti volto a valutare l’intervento di partenariato pubblico privato complesso quale la riqualificazione dello Stadio “Renato Curi”», secondo la prosa della delibera 204 approvata quel giorno. Il venerdì successivo, a poco più di quarantotto ore, il Perugia retrocedeva in serie C. Il 23 febbraio 2021 il presidente della Ternana, Stefano Bandecchi, annunciava che l’indomani avrebbe presentato al Comune il progetto per il nuovo stadio. La Ternana in quel momento era in serie C e sarebbe stata promossa in serie B per arrivare prima decima e poi, quest’anno, quattordicesima a tre punti dalla zona retrocessione. Quando nel 1975 fu inaugurato quello che sarebbe poi diventato il “Renato Curi”, il Perugia era appena arrivato in maniera trionfale in serie A e si apprestava a diventare la squadra dei miracoli che nel 1979 arrivò seconda in classifica senza perdere neanche una partita. Nel 1969, anno dell’inaugurazione del “Libero Liberati”, la Ternana era stata appena promossa in serie B dopo anni di ottimi piazzamenti in serie C e si stava preparando a entrare nella storia con il “gioco corto” di Viciani e la prima promozione in serie A.
Quando le date e gli eventi si allineano in maniera così plateale, diventa palese la totale disconnessione dalle cose reali dei poteri pubblici – e come vedremo economici – e delle burocrazie, che vivono in uno spazio e in un tempo tutto loro, dove diventano priorità delle questioni che non ne hanno ragione d’essere. La realizzazione degli stadi di Perugia e Terni negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso rispondeva alla logica di due squadre emergenti, di due città in espansione demografica, e di un potere pubblico non ancora messo sotto scacco da quello economico che riusciva quindi a ragionare ancora con margini di autonomia. In un mondo che non fosse sottosopra, le attuali vicende niente affatto esaltanti delle due compagini calcistiche consiglierebbero di spendere energie e risorse altrove. Invece, no. Poteri interessati impongono il tema della necessità di nuovi stadi nuovi nonostante a Perugia e a Terni quest’anno la media spettatori sia stata rispettivamente di 6.125 e di 5.556 persone a partita a fronte di capienze di 9.700 posti per il Curi e circa 16 mila per il Liberati.
In entrambi i casi i comunicati stampa delle fonti ufficiali decantano le lodi di strutture “moderne” con ampie aree commerciali, come se ce ne fosse ancora bisogno. In Umbria dal 2001 al 2020 il numero dei punti vendita della grande distribuzione è quadruplicato, passando da 240 a oltre novecento. Un ulteriore aumento, oltre che cozzare con le questioni relative al consumo di suolo, sbatte anche contro il gelo dell’inverno demografico: l’Istat prevede che da qui al 2031 le città di Perugia e Terni perderanno rispettivamente mille e tremila residenti.
A chi giova, dunque, mettere a tema in queste città la questione dei nuovi stadi, farne un perno del dibattito pubblico, dirottarci l’attenzione, e infine ottenerne la realizzazione per poi gestire enormi poli commerciali? È del tutto evidente che l’interesse pubblico, cioè quello della maggioranza delle persone che vivono in queste due città non c’è, ed è messo in ombra da quello di poteri economici con una notevole mole di liquidità da investire sulle superfici delle città per estrarne profitti. Si tratta di poteri economici che messi al confronto con quelli politici – essiccati dal taglio di risorse e da una selezione delle classi dirigenti che sembra di essere dentro al “Grande fratello vip” – sono giganteschi: dotati di uffici stampa e mezzi di persuasione, fanno leva sulla passione diffusa per le squadre di calcio facendo baluginare chissà quali future fortune che non arrivano, ma non importa. Quello che importa è farle immaginare, per conquistare un’egemonia oggi che si trasformerà in guadagno domani. Un guadagno privato su base – letteralmente, perché si tratta di enormi superfici messe a valore – pubblica.