La guerra è insopportabile volontà di potenza spacciata dai belligeranti di ogni latitudine come inevitabile necessità di pace, il riarmo è il suicidio assistito di ogni democrazia venduto come unico farmaco salvavita in situazione di emergenza, la lotta del bene (solitamente occidentale) contro il male (designato nei suoi confini dalle paraboliche raffigurazioni del bene) è il substrato ideologico di ciascun agire, la suprema ragione della libertà (essenza fondante dell’impero del bene), è l’alibi costitutivo di ogni guerreggiare, mai volontario e sempre indotto dallo status quo deciso da altri. L’informazione è l’essenza della libertà, la propaganda è la sua ontologica deformazione, e si potrebbe proseguire all’infinito nella declinazione delle priorità, nella coniugazione delle urgenze.
La guerra in realtà denuda le miserie umane, le lascia comandare in nome di un bene superiore, la guerra è la negazione vivente della vita, il nemico principale di ogni dignità, la guerra fa coincidere l’improcrastinabile diritto alla difesa con il discutibile dovere dell’attacco, ogni arma attacca nessuna arma difende in fin dei conti, la differenza tra armi di difesa e armi di attacco è pelo nell’uovo visto con gli esterrefatti occhi dell’umanità, ogni arma è costruita per uccidere, anche le più difensive che in quanto tali non diventano in automatico inoffensive. Lo sanno bene le popolazioni civili sottoposte alla malvagità necessaria della guerra, sia essa di difesa che di offesa. Popolazioni che passano dagli stenti della vita quotidiana agli orrori delle giornate di guerra, sempre uguali a se stesse, con la morte e la distruzione come pane quotidiano, con la mancanza dei beni di prima necessità (acqua, cibo, riscaldamento) come opprimente stato di fatto. Mentre sui divani e nei talk show televisivi si pontifica dei massimi sistemi, mentre i professionisti del circo mediatico del mondo libero fanno a pezzi le poche voci dissonanti, forti della realtà binaria che costituisce il mondo (il bene contro il male), mentre si abusa della resistenza e della partigianeria e con esse del corso e del ricorso storico, mentre le immagini creano verità immediata e le parole a supporto certificano il vero, mentre succede tutto e il contrario di tutto, in ogni terra segnata dalla guerra (sempre giusta, sempre necessaria, mai sbagliata, mai volontaria) la gente continua a morire in nome e per conto di principi astratti che dipendono sempre e comunque da ragioni pratiche, perché anche il diritto alla libertà delle proprie scelte, il diritto all’autonomia, se non storicizzati, se non calati nella realtà delle cose, che li definisce sostanziandoli, altro non sono che armi di distruzione di massa che si abbattono sui più deboli e indifesi. Nella guerra tutti sono vittime tranne i mandanti e i persecutori tattico/strategici della necessità non rinviabile della guerra stessa, sono vittime innocenti le bambine, i bambini, le donne, gli uomini, le vecchie, i vecchi che nulla hanno a che fare con la guerra. Il paradosso ha preso il sopravvento, il ridicolo tende a essere metro di misura dai risvolti tragici, l’umanità riesce sempre con maggior difficoltà a rimanere tale. Nebbie asfissianti danno respiro a voci belligeranti, megafoni di diritto armato fagocitano i sibili del diritto civile, l’emergenza sempre pronta a farsi eccezione indossa mimetiche e imbraccia strumenti di morte per garantire dignità di vita.
Ci sarebbe poco da aggiungere a quanto scritto nei primi giorni della guerra tra Russia e Ucraina, perché la guerra è guerra al di là e al di qua di ogni ragionare sulla libertà e sul diritto. Non perché la libertà e il diritto – così difficili da definire, così ardui da istituzionalizzare – siano argomenti da prendere alla leggera, tutt’altro; ma perché la guerra è sempre problema e mai soluzione, come in realtà si tende a far credere in nome e per conto del diritto (alla guerra) e della libertà (di imporre). La contrarietà alla guerra, che è tutto tranne neutralità verso l’accadere delle cose, non può che essere punto di inizio e di arrivo di ogni ragionare. È un atto dovuto verso l’umanità, è un dovere assoluto verso il pianeta è l’unica urgenza non rinviabile che nessuno tranne il Papa e i Movimenti del mondo intero sembra voler prendere in considerazione, impegnati come si è nel dover sostenere ora le ragioni dell’uno, ora le ragioni contro l’altro.
Il conflitto tra Palestina e Israele ha ragioni storiche profonde che mai sono state affrontate se non con il metro della guerra che tutto regola e tutto risolve. Un metro che usa le pallottole come millimetri e le bombe come centimetri. Un metro di morte che promette vita. Il paradosso si fa ragione di stato e di governo definendo ogni diritto e ciascuna libertà a colpi di arma da fuoco. Come scrivevo prima c’è poco da aggiungere al di qua e al di là di ogni ragionare, ma un punto mi preme sottolinearlo perché ribalta, con un cinismo infinito travestito da magia incantevole, i presupposti della democrazia, e questo punto sta tutto nelle parole aberranti del premier israeliano che rivendica, mentre l’intero mondo occidentale si schiera al suo fianco, la pratica dell’assedio di civili che vivono da sempre in uno stato di segregazione forzata, come punto più alto per dare seguito alla teoria della vendetta che altro non è se non, a suo dire, il diritto alla libertà del popolo israeliano. Detto in termini diretti e con meno retorica, visto che la segregazione non è bastata (la principale ragione del male scambiata per soluzione), anzi visto che la segregazione ha prodotto l’attacco diretto e frontale verso Israele, Israele passerà direttamente allo sterminio. Come pensare che non sia lo sterminio la soluzione finale che si cela dietro le parole del leader israeliano? Come pensare che non siano i civili della striscia di Gaza a dover pagare con la vita il diritto alla difesa che prende la forma dell’assedio totale di Israele? Come poter solo credere che ogni distruzione riguardi Hamas e non la popolazione civile?
Appartengo, con tutte le mie miserie, a quella variegata e precaria moltitudine che rivendica l’essere di parte, che vede il conflitto agito e agitato contro l’asimmetria costitutiva del capitalismo come mezzo preferenziale di progresso, che non si nasconde dietro l’ipocrisia dell’equidistanza in un mondo caratterizzato dalla gravitazione sociale. Oggi più che mai sento la necessità e l’urgenza di occupare le sedie del torto, di sostenere il conflitto corporale incarnato dai migranti e osteggiato dai monarchi di un’Europa a trazione sovranista (più ossimoro che paradosso) e più in generale da un occidente uso a declinare la vita attraverso il profitto e allo stesso tempo combattere con ogni mezzo e con ogni forza l’imporsi della guerra non come prolungamento della politica, ma come ragione portante della democrazia. Sostenere il diritto all’assedio e la libertà della vendetta è troppo anche per regimi democratici che pensano di difendere se stessi attraverso la negazione sistematica dei propri principi.