L’uccisione di una donna da parte di un uomo è lo sprofondo in cui culmina una scala che arriva da molto più in alto e inizia con gradini verso il basso impercettibili, perché accettati socialmente. Un falso piano verso l’abisso che scivola via via dal guardare con compiaciuto sospetto la vicina che vive da sola – scelta che le assicura lo stigma di peccaminosità – al giudizio tranciante su quella che cambia partner troppo spesso; che passa per il capo che esorta la collaboratrice avvenente a tirare fuori il fascino quando c’è da lavorarsi un cliente e per il minimizzare l’insolenza o addirittura la pacca sul culo data alla collega che spesso sta zitta e se la tiene (a conferma dell’accettazione sociale – magari forzata – di atteggiamenti inaccettabili), e se reagisce diventa la tipa acida da cui guardarsi; una discesa agli inferi che è costellata dalle innumerevoli discriminazioni sul posto di lavoro in termini di stipendi e trattamenti vari e dai se l’è cercata nei casi di violenza.
C’è una linea di continuità tra queste consuetudini distorte nei rapporti di genere. Una linea i cui punti estremi consideriamo inconciliabili – cosa che ci consente di dribblare l’irraccontabile – ma che hanno un minimo comune denominatore: il fatto che gli uomini con le donne possono permettersi libertà che non prevedono reciprocità. Possono perché ciò non solo è tollerato socialmente ma incoraggiato. Si tratta di una pedagogia malata che inizia fin dall’età prescolare: attraverso giochi, esortazioni, perfino modi di rivolgersi differenti a seconda che ci si trovi davanti a una bambina o a un bambino. Il risultato è che da adulti la distorsione è il più delle volte completa. E l’articolazione sociale che abbiamo intorno trasuda di ciò, tanto che a tutto questo non si fa caso proprio perché è considerato normale. Anni fa l’esperienza di Egalia, un asilo svedese in cui si sperimenta un percorso formativo che equipara maschietti e femminucce, è rimbalzata fino qui, a conferma della sua straordinarietà.
Eppure c’è una questione maschile gigantesca, in Italia e non solo. Il primo passo per tentare di cambiare le cose sarebbe riconoscerla. Per poi agire. Educando fin dalla più tenera età a partire dalla presa d’atto che i maschi sono portatori di un germe di violenza che è anche di genere e che va incanalato, disinnescato. Sanzionando comportamenti, rendendoli inaccettabili socialmente. Il mero inasprimento delle pene per chi commette femminicidi è infatti la presa d’atto preventiva di una sconfitta: la pena arriva a delitto commesso. Quello cui dovremmo puntare è rendere meno difficile il mestiere di essere donne (anche passeggiare da sole diventa un’impresa), cioè umanizzare i maschi; evitarli, i reati, rendere il nostro ecosistema più vivibile per tutte e tutti; isolare la bestia che è in noi (maschi).
A poco vale sbandierare una diversità di genere che si vorrebbe naturale, e quindi insuperabile, come fanno molti. Quello non è un modo per guardare in faccia la realtà, bensì per cristallizzarla creandosi un alibi comodo. Fin quando non impareremo a stigmatizzare pesantemente le prevaricazioni e i comportamenti che non prevedono reciprocità, a confondere le offese gratuite coi complimenti, a tollerare le discriminazioni palesi e l’atteggiamento da bulletti infoiati tenuto da maschi adulti che non di rado sfruttano le loro posizioni di vertice, continueremo a correre sulla ruota dei criceti, cioè diffonderemo luoghi comuni e solidarietà di facciata in occasioni dei femminicidi ma un minuto dopo continueremo a fare come prima. Fin quando non affogheremo il conformismo rassicurante, ipocrita e sordido che conduce ai femminicidi, continueremo con cadenza regolare a raccontarci la storia dell’ennesima donna che è stata uccisa sfumando sul protagonista attivo. Maschio. Sempre maschio. Per questo è sui maschi che occorre agire. L’alternativa è raccontarsi le storie a metà. E continuare a correre sulla ruota da criceti. Rassicurati perché ci rifiutiamo di capire fino in fondo quello che ci piace così poco da considerarlo irraccontabile.