Indagare il degradare a destra di una intera collettività, cercare di capire come una città da sempre rossa sia riuscita a trasformarsi in nera, un nero fosco dalle svariate cromature, è esercizio che nasconde mille insidie e altrettante autoassoluzioni. Farlo, come da sempre fa Alessandro Portelli, ternano di adozione e professore universitario di professione, attraverso il racconto orale collettivo di Dal rosso al nero, ha in sé il rischio di trasformare le mille insidie in migliaia di trappole e le altrettante autoassoluzioni in infinite autocelebrazioni. Il libro con cui Portelli ha trasformato, per l’ennesima volta, il valore del racconto di tanti in permanenza dello scritto organizzato dal singolo, riesce a ben spiegare, forse oltre le intenzioni dell’intervistatore e sicuramente al di là di ogni pudore dell’intervistato, le ragioni più o meno profonde della crisi di questa conca maledetta. Una città dove i fumi della produzione pesante non sono stati minimamente scalfiti dal sogno dell’immaterialità con cui si è tentato di passare al nuovo millennio ormai già vecchio.
Vedere Terni come città “anticipatrice” di ciò che sarà, leggere in Terni le tendenze che si trasformeranno in solide realtà, fare cioè della realtà ristretta di Terni un volano in grado di spiegare le trasformazioni socio-economiche – e perché no? – antropologiche dell’intero sistema Italia, rischia di rappresentare oggi una sorta di corto circuito. Usare Terni come cartina tornasole di un Paese unito nella lingua dall’avvento della televisione e diviso in mille rivoli e altrettante memorie dalle storie che l’hanno costruito, può essere fuorviante sia nel capire cosa possa essere successo a Terni, che nel fiutare cosa potrà accadere in Italia. Quindi, non certo per fare del campanile il nostro metro di giudizio e del campanilismo la nostra ideologia guida, ci sentiamo di affermare che queste storie di tanti, tradotte in unico racconto scritto, descrivono e forse mai a sufficienza il declino di un provincialismo che, persi i suoi tratti di ribellione verso i padroni e di resistenza contro il volere dei padroni, pur somigliando sempre più ad altri provincialismi, continua a mantenere dei tratti così tipici da non poter essere universalizzato.
Più che volano in grado di raccontare quello che potrebbe essere il domani in Italia, il lavoro di Portelli dovrebbe essere visto come lente di ingrandimento, che ha in sé il rischio del distorcimento del reale, sulle miserie (tante) e sugli splendori (sempre più rari) di una realtà contadina che ha trovato nella grande fabbrica ragione di vita e che fatica nello scovare un domani altro tanto dalla terra, quanto dalle ciminiere. Ed è proprio forse questa incapacità di prendere atto delle innumerevoli miserie (collettive), preferendo invece soffermarsi sullo sparuto degli splendori (individuali), a segnare una crisi che viene da lontano e che lontano vuole andare.
Tra i tanti racconti raccolti e messi a sistema, secondo un filo conduttore che ha un nome e un cognome, il libro pur essendo fatto di tanto ascolto ha l’indirizzo certo e univoco di chi lo ha firmato, in uno scambio continuo tra molteplice e soggettivo (nel migliore dei casi), tra dispersione e individualità (per rimanere su un piano di spicciolo realismo), quello che più colpisce è l’incapacità dei tanti di mantenere un piano di discussione collettivo e di scivolare invece verso un racconto meta-individuale. Insomma il più evidente segno di crisi che traspare scorrendo le pagine del libro è proprio questa tendenza di molti di non prendere atto di – o meglio di non fare i conti con – una crisi a trecentosessanta gradi che tutti ha coinvolto e che tutti avrebbe dovuto inchiodare al muro del pianto e delle responsabilità, attraverso il racconto edulcorato del proprio agire, attraverso cioè una narrazione più o meno epica della propria esperienza personale. Tanto che i “poveri miti” che emergono qua e là tra le duecentottantotto pagine nulla hanno di collettivo – viene da rimpiangere a tal proposito la mitopoiesi machista del famo l’acciaio mica la cioccolata che tanto detestiamo – e tanto hanno di iper-personalistico. Ciascuno di loro, a proprio dire, esente da ogni colpa ovviamente, ha trovato nella fuga (dalle responsabilità aggiungiamo noi), più o meno artistica, una ragione di successo, una strada altra in grado di contrapporsi al declino segnato. Figli legittimi di questa città operaia e ribelle, che tutto hanno fatto per questa conca e che nulla ricevendo da essa non hanno trovato altra strada che il successo personale. Una via di mezzo tra il delirio senza doppio fine donchisciottesco e lo strappalacrime andante del libro cuore. Insomma ciascuno di loro (di noi) ha preferito raccontare se stesso e la sottrazione attiva che l’ha fatto vincente, piuttosto che soffermarsi sulle mille complicità, volontarie e involontarie, che ha avuto nel corso del tempo e che si sono trasformate in crisi conclamata. Una crisi tale da rendere Andrea Giuli, per tre anni vice del sindaco leghista Leonardo Latini, superstar hollywoodiana e Stefano Bandecchi sindaco. Altro dal volano che indica il futuro di altri, molto più vicini all’ago che ignorato decreta tempesta, mentre si pensa di potersi crogiolare sotto i raggi di un consolatorio sole.
Un ultimo appunto lo rivolgiamo al sottotitolo, “La svolta a destra di una città operaia”, e qui forse viene fuori la difesa strenua di un linguaggio che rivendica appartenenza. L’utilizzo del termine svoltare (svortare) in questa conca viene usato per descrivere il mirabolante andante – quillo ha vinto al superenalatto, quillo sì che ha svortato cazzo -, utilizzarlo per descrivere la regressione che ha portato a destra è forse segno stesso di una crisi che tutto e tutti comprende, tutto e tutti non ignora.
Raccontare serve, ma non basta, ascoltare è prezioso, ma non sufficiente, un ringraziamento doveroso a tal proposito Terni lo deve al prezioso lavoro svolto nel tempo da Alessandro Portelli: tirar su le maniche tornando a sporcarsi le mani con le contraddizioni irrisolte e le macerie prodotte è l’unica via che abbiamo per risollevarci collettivamente; continuare a dondolarsi acriticamente sul nostro benfatto sparando a zero contemporaneamente sul malfatto altrui è la forma più pericolosa di populismo. Un populismo che fa della demonizzazione dell’orco cattivo il mezzo preferenziale per giustificare l’impotenza esponenziale del proprio narcisismo dagli specchi deformanti.