Quando ad Assisi si entra nella Chiesa inferiore della basilica francescana, sebbene le cappelle laterali contengano il Giotto bellissimo delle storie di Maddalena, Simone Martini ai suoi vertici con le storie di san Martino e Puccio Capanna nella Cantoria, nel vedere alle pareti laterali della navata gli affreschi ridotti a frammenti rimane nell’animo un misto di dispiacere, ammirazione e tenerezza verso il “Maestro di san Francesco”, autore di quel ciclo che con le storie di Francesco e Gesù a specchiarsi l’una nell’altra copriva tutta la navata accompagnando fino all’altare i pellegrini che entravano. Dispiacere nel pensare che per aprire quelle cappelle abbiano scarnificato i suoi affreschi, ammirazione per quello che lui e gli uomini e le donne del Duecento sono riusciti a fare in Italia; tenerezza verso un grande artista anello di congiunzione tra Giunta Pisano e Cimabue che non sappiamo né da dove provenisse né come si chiamasse.
Era un pisano arrivato ad Assisi al seguito di Giunta Pisano? Un assisiate? Un frate francescano? È un peccato che non siano riusciti ad accertarlo perché un nome e un luogo non solo identificano una persona ma danno consistenza a quello che è, a quello che ha prodotto, a quello che rappresenta. Sta di fatto che la sua carriera deve essere iniziata ben prima sia del 1272, data di esecuzione del crocefisso di Perugia, sia degli affreschi della basilica inferiore di Assisi e dell’immagine di Francesco che gli ha dato il nome perché i francescani non avrebbero mai chiesto a uno qualsiasi dei tanti pittori operanti ad Assisi di dipingere Francesco in una reliquia preziosa come la tavola dov’era morto.
Insomma il Maestro di san Francesco (prende il nome proprio da quella tavola dipinta) non è un imitatore di Giunta Pisano o uno dei tanti esponenti di quello che chiamavano “il momento figurativo pregiottesco” ma un protagonista dell’arte italiana del Duecento. Un artista che ha espresso la sua arte dipingendo crocefissi, tavole d’altare, cartoni per vetrate in un atelier messo a disposizione degli artisti dai francescani di Assisi dove potrebbe essere stato una specie di capocantiere addetto anche al controllo dell’aderenza al messaggio francescano delle opere degli altri maestri quasi tutti, se non tutti, senza nome che vi hanno operato.
In quell’autentico epicentro dell’arte italiana del Duecento che era la basilica francescana d’Assisi il Maestro di san Francesco si è mosso con l’autorevolezza di un «solenne maestro», come l’ha definito Pietro Scarpellini, che non è irragionevole immaginare fosse un frate francescano. Un autorevole frate che lavorando per la basilica e le chiese francescane che nascevano in Italia come quella perugina di san Francesco al Prato ha dato un notevole apporto al continuo rinnovarsi dell’arte italiana e un contributo importante alla propaganda francescana che faceva di tutto per ricordare che Francesco era quasi un altro Cristo: Il santo che aveva vissuto povero come Gesù, s’era spogliato di tutto nella piazza di Assisi come spogliarono Cristo prima della crocefissione, come lui portava nel corpo le stimmate di quella Passione.
Delle opere prodotte in quell’atelier è rimasto ben poco: alcune sono andate distrutte o diventate legna da ardere; altre nei rifacimenti succedutisi nei secoli nei vari conventi francescani prima sono finite in corridoi e celle del convento poi nell’Ottocento a incrementare i traffici antiquari; poche sono rimaste nel Museo della Basilica, in altri conventi e musei.
La mostra di Perugia “L’enigma del Maestro di San Francesco. Lo stil novo del Duecento umbro” a cura di Andrea De Marchi, Veruska Picchiarelli, Emanuele Zappasodi, alla Galleria Nazionale dell’Umbria dal 10 marzo al 9 giugno del 2024 consente di vedere una parte di quello che è rimasto nel mondo, sufficiente però per immaginare quanto fosse colorato il medioevo e avvertire un po’ dei rumori e odori che uscivano dalle botteghe in quegli anni. Permette anche di riflettere sul fatto che se delle opere d’arte dal Duecento riescono a vivere per secoli arrivando fino a noi non possono farlo per caso. Se avviene è perché dietro la loro immagine si avverte un’intrinseca moralità, un notevole retroterra culturale e perché, seppur depotenziata e cambiata, hanno mantenuto la loro capacità di suggestione.
Moralità, cultura, suggestione che si avvertono di fronte ai due grandi crocefissi di Perugia (del “Maestro di san Francesco) e Gualdo Tadino (del “Maestro di santa Chiara”), il tavolo reliquia dov’è morto ed è stato dipinto san Francesco, il paliotto con i taumaturgici miracoli del Poverello la cui attribuzione oscilla tra Giunta Pisano e il Maestro del Tesoro d’Assisi e tutti gli altri quadri che raccontano questo grande e misterioso maestro e la temperie culturale artistica intorno a lui.
Una serie d’immagini religiose riunite dalla mostra che insieme permettono di respirare un soffio dell’atmosfera che nel Duecento aleggiava per il laboratorio artistico del convento francescano d’Assisi e d’avvertire come là dentro la spiritualità francescana si trasfigurasse in arte perché al tempo del Maestro di san Francesco lì tutto si faceva nel nome di Francesco e di Cristo come d’altronde, in quel tempo, al di fuori di quell’atelier zeppo d’arte tutto avveniva nel nome di Dio: la politica, la vita quotidiana, l’economia, la pace, le guerre.