Tra i comandamenti della comunicazione politica che Silvio Berlusconi ha lasciato in eredità ai suoi, senza peraltro risparmiare gli altri, sicuramente la vicinanza del candidato all’elettore, o meglio l’intimità tra candidato ed elettore è un pilastro inamovibile, una certezza incrollabile che permette a chi meglio la interpreta di primeggiare nella competizione. Se Silvio era l’unto del Signore fattosi da solo e in grado di incarnarsi, dall’alto della sua versatilità, in ogni prototipo di italiano, dall’operaio all’impiegato, dal manovale al banchiere, dal negoziante all’acquirente, Giorgia è la vittima del sistema figlia del popolo che non ha bisogno di incarnarsi perché lei è. Se cioè Silvio era showman del miracolo italiano, l’incantatore di serpenti che aveva la necessità di identificarsi con l’elettore medio dall’alto del suo essere magnifico, un uomo di successo a cui dare del tu, Giorgia, che di quel prestigiare è stata più cilindro che coniglio, vuole continuare la solida tradizione di famiglia facendo credere all’elettore medio di essere elettrice media, donna di popolo e non simbolo di potere. In entrambi i casi il calcolo elettorale detta ritmi e tempi riducendo la politica a mera melodia che affascina, sostituendo la proposta dei programmi oggettivamente traducibili in realtà in marketing fideistico basato sul culto della persona che non richiede riscontro proprio perché questione di fede che incrocia la fiducia.
Le facce e i nomi, in uno scavare continuo che perlustra l’oltre del fondo del barile, hanno finito con il sostituire anche quel minimo di messaggio sloganistico che il pubblicitario andante aveva imposto in sostituzione del ragionamento politico. In una gravitazione che non prevede tappe intermedie, in un precipitare che fa della continuità ragione strutturale, la politica italiana ha sostituito la laicità con la sacralità e il riscontro oggettivo con il credo fideistico. Quello che è cambiato è il panorama, il contesto in cui i pifferai oggi si trovano a esibirsi. Se il miracolo italiano berlusconiano si muoveva all’interno dell’Europa della tradizione popolare – del cattolicesimo più o meno moderato incline alla reggenza condivisa e asimmetrica con i socialisti-, l’underdoggismo meloniano tende a smantellare quell’impalcatura europea sostituendo i socialisti con i conservatori. Se scrivendo Silvio sulle schede elettorali che andavano a costituire il Parlamento europeo si leggeva Ppe, scrivendo Giorgia quello che si legge è Viktor (Orban); se con Silvio la federazione di Stati d’Europa era meta unica dalla difficile costruzione, con Giorgia la federazione si fa sommatoria astratta di Stati nazione che rivendicano precedenza sull’Unione; se con Silvio si tendeva a far accettare la destra post missina e la Lega post scissionista alla grande famiglia del Ppe, con Giorgia si vuole imporre il sovranismo che nega di fatto l’Europa al Ppe.
La questione non è da poco, il momento è cruciale, ma non per il votante italiano, rimanendo nei confini angusti delle nostre miserie, che vive la tornata elettorale europea come ennesima occasione per praticare un assenteismo sfiduciato (per la metà degli aventi diritto), o come reiterata manifestazione di fiducia da riversare su facce sorridenti e nomi familiari. Se Giorgia chiede fiducia di popolo per smantellare l’Europa che fu e che doveva essere agitando la bandiera della ristrutturazione a copertura della volontà di demolizione, se Antonio (Tajani, non Totò) rassicura i moderati che vedono l’Europa come occasione e non come demone, Matteo, rimanendo nella parte destra della barricata, uscendo dall’inganno del prima che non prevedeva il poi si butta sul tradizionale più (Italia) da contrapporre al meno (Europa). Il salto carpiato che Giorgia (e Matteo) propone (propongono) alla faccia delle rassicurazioni del buon Antonio è il modello identitario di Orban in Europa e di Trump negli Stati Uniti. Scrivere Giorgia per leggere Viktor e Donald.
Dall’altra parte della barricata, in quel campo che va dal largo al giusto mantenendosi agli occhi di tutti ballerino, la debolezza costitutiva, che è alla base della forza esogena che gonfia gli altri, porta a scimmiottare, magari con maggior pudore e minore enfasi, rimanendo di fatto nella metà del guado, riducendosi a non scegliere tra l’essere pesce o carne, le strategie elettorali interpretate con staffettismo magari litigioso ma pur sempre efficace da quel centro/destra fattosi destra/centro. Se si è riuscita a evitare nella maggior parte dei casi l’ostentazione del nome, lo scosceso del presentarsi pur sapendo con certezza di non andare, nonostante i richiami indignati di quel Prodi lasciato nell’angolo dell’impotenza, ha coinvolto quasi tutti. La scusa – lo facciamo per dare una spinta ulteriore alla nostra idea di Europa – non regge. In realtà lo si fa perché lo fanno gli altri, e questo è ancor più avvilente, proprio perché quegli altri l’Europa la vogliono distruggere e non costruire. Accettare la sfida nominalistica della destra/centro con sfumature plebiscitarie seguendone la logica del – candidiamoci anche se non andremo – segna la morte simbolica dell’Europa, luogo fisico in perenne costruzione oggi minacciato nella sua essenza.
L’Europa oggi più che mai ha bisogno di presenza certa di corpi e menti a essa dedicate, i nomi riportati nelle liste non possono che essere quelli che sederanno effettivamente in Parlamento e non quelli, come in realtà accade, che fanno da pastura elettorale. La costruzione della Federazione europea non abbisogna di populismi né identitari né comunicativi, l’Europa, intesa come contenitore di intenti federalisti in grado di abbattere muri e ridurre numero di confini, parte dalla serietà del rapporto tra candidati ed elettori. L’Europa potrà essere solo se verrà sottratta ai giochi incrociati di chi ha fatto della politica marketing e del marketing unica pratica politica, imponendo i nomi e le facce sorridenti e omettendo i cognomi e i fini impresentabili.