«Abbiamo ricostruito un rapporto con i cittadini, abbiamo dato voce alle migliori energie della città». Le parole usate dalla candidata del centrodestra per il Comune di Perugia, Margherita Scoccia, durante il confronto con gli altri aspiranti sindaci organizzato dal Corriere dell’Umbria lunedì 13 maggio, mi hanno riportato a quelle che l’assessora all’Innovazione sociale del Comune di Spoleto aveva pronunciato appena quarantott’ore prima durante la presentazione del Rapporto 2023 di Labsus, il Laboratorio per la sussidiarietà che compie quest’anno i venti anni di attività. «Noi politici non sappiamo cos’è la partecipazione, non ne conosciamo gli strumenti. La confondiamo con l’ascolto», aveva detto Luigina Renzi il sabato precedente nella sede di Legacoop Umbria che aveva ospitato l’incontro. Scoccia, in totale buona fede, e anzi proprio nell’intento di fornire di sé e dell’amministrazione uscente che rappresenta l’immagine di una predisposizione all’apertura nei confronti di cittadine e cittadini, stava al contrario confermando come la fotografia impietosa scattata da Renzi fosse del tutto aderente alla realtà. In quelle parole è inscritta l’alterità tra i rappresentanti e gli elettori, seppure l’intento della candidata era dimostrare l’opposto. In quel dare voce, che presuppone il soggetto attivo che ha la facoltà di darla e quello passivo che una volta ottenuto il nulla osta può parlare, sono intimamente racchiusi tanto la visione del rapporto piramidale tra cittadini ed eletti quanto la confusione tra ascolto e partecipazione evocata dall’assessora di Spoleto che innerva ancora la quasi totalità dei rappresentanti e la maggioranza del popolo che li rende tali. Tutto questo accade mentre di «amministrazione condivisa» si parla ormai da almeno dieci anni, da quando cioè quella pratica è stata oggetto della prima sperimentazione adottata dal Comune di Bologna nel febbraio del 2014. Nel frattempo, l’Umbria si è dotata nel 2023 di una legge regionale sull’amministrazione condivisa. E nella legge regionale sulla qualità del lavoro e dei servizi alla persona entrata in vigore nel marzo di quest’anno, si stabilisce che tali servizi possano essere dati in appalto solo nel caso in cui «non sia possibile apprestare modelli organizzativi di amministrazione condivisa». Il Comune di Perugia si è dotato addirittura nel 2017 di un «Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la valorizzazione dei beni comuni urbani». Di patti di collaborazione da allora ne sono stati stipulati 27, a Perugia. Tutti scaduti.
In Italia se ne contano 7 mila disseminati in 300 enti locali. Insieme alle leggi sull’amministrazione condivisa si tratta di «uno dei casi felici in cui il diritto si è messo a disposizione delle persone», dice Alessandra Valastro, giurista, direttrice del Master in Politiche dei processi partecipativi dell’Università di Perugia. Ma, anche se «ci sono luci e ombre», come ammonisce Daniela Ciaffi, sociologa del Politecnico di Torino e vicepresidente di Labsus, a cosa è dovuta la pressoché totale asincronia tra il progresso in campo normativo, il potenziale trasformativo degli strumenti di cui stiamo parlando, e l’arretratezza di amministratori e amministratrici? In massima parte al fatto che la partecipazione, ancorché la si evoca per farsi sentire vicini ai cittadini, se la si prende sul serio «è una rivoluzione culturale». Lo dice Anna Lisa Lelli, funzionaria della Regione Umbria che ha accompagnato il varo delle leggi del 2023 e del 2024, è d’accordo Stefania Nichinonni, dirigente del Comune di Spoleto, una di quelle che la rivoluzione la sta guidando nell’ente in cui lavora. Annuisce l’assessora Renzi. E rincara Ciaffi: «Si tratta di un capovolgimento delle gerarchie». Quindi, la partecipazione, come tutte le rivoluzioni, prevede sovvertimenti, visioni e strumenti nuovi e abbandono di vecchie pratiche. E fatica. Tutte attività che che un conto è prometterle, altro è affrontarle. Per cui si segrega la partecipazione nel recinto della concessione di ascolto, meno dispendioso, niente affatto trasformativo, ma ugualmente proficuo in termini di consenso, soprattutto se gran parte dell’opinione pubblica trascura che la partecipazione rappresenta l’ingresso in una fase nuova della democrazia, quella che oltre a garantire rappresentanza, prevede la contribuzione diretta di cittadini e cittadine.
Ma perché la partecipazione, nella sua punta più avanzata di amministrazione condivisa, è così diversa dalla semplice concessione di ascolto? Perché essere cittadini partecipi, in questo nuovo universo, significa gestire. Non, semplicemente, farsi ascoltare. E gestire significa decidere insieme, non solo proporre. L’amministrazione condivisa, cioè l’incarnazione più autentica di partecipazione, Labsus la definisce come «forma di collaborazione tra i cittadini e l’amministrazione, finalizzata alla cura, alla rigenerazione e alla gestione condivisa dei beni comuni, che trova realizzazione, più concretamente, attraverso la stipula dei Patti di collaborazione». Un modello organizzativo che «consente a tutti i cittadini attivi, singoli o associati, e all’amministrazione di svolgere attività di interesse generale su un piano paritario». Per collegare teoria e pratica, il ministero della Cultura ha calcolato che il 25 per cento del patrimonio archeologico, paesaggistico e architettonico del nostro paese è gestito attraverso Patti di collaborazione. Andrea Bernardoni, presidente di Legacoopsociali Umbria, ricorda che a Trento, il Comune e una serie di associazioni hanno stipulato un Patto di collaborazione che prevede un’attività di «pulizia e ripristino di alcune zone urbane, oltre che recupero di spazi urbani vandalizzati» in cui lavorano persone con disabilità. Un perseguimento di interesse pubblico al quadrato, si direbbe. Mediante Patti di collaborazione ci sono ex asili diventati Case di quartiere, parchi pubblici gestiti da scolaresche, piazze amministrate da comitati di quartiere.
L’amministrazione condivisa è insomma una riappropriazione di beni comuni da parte della cittadinanza, che adotta misure innovative sia nella gestione che nella loro valorizzazione. «È un luogo in cui si incrociano l’alto (la pubblica amministrazione) e il basso (le esigenze dei cittadini», secondo una delle definizioni che ne dà Ciaffi. Ma non è tutto qui. L’amministrazione condivisa è un modo di governare, soprattutto a livello locale, in maniera più efficace e al passo coi tempi. Più efficace perché mediante i suoi strumenti accoglie le esigenze di cittadini che vivono il proprio territorio. Al passo coi tempi perché lo spappolamento dei corpi intermedi rende oggi necessarie forme di partecipazione per un protagonismo sociale che fino a un certo punto è stato convogliato dal basso verso l’alto attraverso partiti e sindacati che oggi non hanno più o hanno perso gran parte della capacità di rappresentare che hanno avuto fino agli ultimi anni del secolo scorso. E c’è anche di più: l’amministrazione condivisa è un’evoluzione della democrazia verso una forma più compiuta, e se praticata genera a sua volta coesione sociale e innalzamento del livello di intelligenza collettiva. Ecco perché è una rivoluzione. Ecco perché è costitutivamente differente dal semplice ascolto.
C’è da fare, però. E parecchio. C’è bisogno di formazione e di pratica affinché la pubblica amministrazione si doti di strumenti e si lasci permeare da un nuovo modo di agire, che in qualche modo ribalta il vecchio. Lo sottolineano Lelli e Nichinonni, che la pubblica amministrazione la conoscono bene. C’è l’esigenza che il livello politico si riscuota dall’inerzia di una visione antica e distorta della partecipazione, rassicurante perché continua a garantirgli sovranità, ma cieca come un vicolo che finisce addosso a un muro. Questo porta a mettersi in discussione per rendere il proprio agire davvero vicino alle esigenze delle persone, esorta l’assessora Renzi. E va sottolineato a questo proposito che se la candidata sindaca del centrodestra a Perugia confonde partecipazione e ascolto, nel programma di quella di centrosinistra l’amministrazione condivisa compare fin dal primo capitolo.
Le applicazioni dell’amministrazione condivisa sono potenzialmente infinite: dal welfare alla cultura ai beni pubblici. «Perché non pensare alla gestione del servizio idrico, che un referendum ha ribadito essere un bene comune, in forma di amministrazione condivisa»?, chiosa Bernardoni. In fin dei conti, l’amministrazione condivisa può essere spiegata così: una forma di gestione che esce dalla tenaglia pubblico-privato per approdare al comune condiviso, cioè all’uso dei beni secondo criteri di utilità sociale stabiliti dalla comunità. In questo consiste il suo incentivo a portare la democrazia sempre più in basso, che poi significa innalzarne il livello.