Un uomo col dito puntato
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L’obbedienza come metodo

 

A Bandecchi si può imputare di tutto, ma non di non essere rimasto fedele a se stesso, o meglio alla caricatura di e stesso, al suo essere super uomo, fatto di superlativi assoluti diffusi e contrastanti, di sputi, di schiaffi promessi, di culi guardati, di corpi femminili da trombare. Insomma un capo indiscusso e indiscutibile, con la clava al posto della lingua e denari e potere come carta d’identità, da omaggiare con il dovuto sussiego e temere con rispettosa rassegnazione, con un seguito di idolatri evidentemente estasiati dall’eco inebriante del che cazzo me ne frega e del mi sono rotto i coglioni.

Una delle cose che più mi ha colpito in questo anno di consiliatura al di fuori dell’ordinario del comune di Terni è stata l’incapacità dell’opposizione di riuscire a inquadrare nel mirino della dialettica della lotta politica la figura del sindaco, limitandosi alla sterile serialità di sdegnate prese di posizione contro un intollerabile e smodato comportamento istituzionale, seguite da visite cadenzate negli uffici del prefetto. Non che non andasse messa in discussione la volontaria trivialità del mecenate di ieri e diventato oggi barbaro. È che il significato profondo politico delle sue esternazioni, ostentate e reiterate, mai è stato colto nell’essenza politica, nella conclamata certificazione del pericolo assolutismo che riguarda sì l’intero consiglio, ma non tanto per l’irriverente linguaggio di modi e parole verso le opposizioni, quanto piuttosto per il diritto di dominio fondato sulla (non) dialettica dell’ordine perentorio che ha imposto alla sua – dando al sua non un significato di appartenenza ma di proprietà – maggioranza.

Mentre cioè dai banchi dell’opposizione si assisteva a una levata di scudi in difesa di se stessi, in difesa della propria onorabilità messa a repentaglio dalla sguaiataggine del sindaco, quello che è mancato è stato l’evidenziare come il vero rischio per la “democrazia di conca” stesse nell’incapacità della maggioranza di avere una dialettica interna, di riuscire cioè a raggiungere una sacrosanta posizione unanime grazie al libero ragionare sulle cose e non per merito di una indiscutibile imposizione calata dall’alto del più bieco cesarismo.

Bandecchi, che non ha poi bisogno di essere provocato per andare fuori giri, a immagine e consumo mediatico, ogni qualvolta si è trovato a strepitare improperi verso l’opposizione ha ribadito sempre con forza assoluta come il non contare un cazzo degli altri fosse diretta conseguenza della sua decisione, figlia dello stato di giramento di coglioni indotto, di parlare per nome e per conto di una maggioranza pronta a obbedire e impossibilitata a discutere. Il problema vero non era cioè il coglione gridato allo Spinelli o al Cecconi di turno, il problema vero si annidava nel fatto che quel coglione fosse sistematicamente seguito dal lapidario: e ora non facciamo più passare una sola delle vostre proposte. Se fai girare i coglioni al sindaco, cara opposizione, la maggioranza agirà di conseguenza, perché la maggioranza ottempera, non questiona.

Se l’opposizione poco ha ragionato sull’essenza del problema, la maggioranza non poteva proprio affrontarlo perché il problema era insito nelle proprie fondazioni, il problema cioè era dispositivo costituente ed essenza costitutiva della maggioranza. Il conflitto che ha portato alle dimissioni dell’assessora Mascia Aniello, la quale ha accusato di essere stata aggredita da un collega di giunta «per aver fermamente reclamato il diritto alla salute per lavoratori e cittadini ternani», va inquadrata in questa cornice sistemica.

La premessa necessaria è che troppo spesso i modi di Bandecchi sono stati al centro della discussione politica sostituendosi ai contenuti politici e per Terni il rapporto irrisolto tra la necessità del produrre (ricchezza?) e l’urgenza del tutelare la salute di tutti i cittadini è l’elemento cardine di ogni ragionamento politico. Detto questo e rimanendo nei confini ristretti dell’ontologia della maggioranza, lasciando in secondo piano, per volontaria necessità analitica, le priorità politiche di una conca che sembra sempre più incapace di risollevarsi, va ricordato tanto alla Aniello (vittima a suo dire di aggressione verbale sessista) quanto a Sergio Cardinali (presunto aggressore dal verbo sessista) che tutto era scritto, tutto era verbalizzato.

Non entro nel merito della questione visto che entrambi i protagonisti sembrano orientati ad agire fino alle estreme conseguenze (legali) in nome e per conto della tutela personale, affronto invece, senza con questo voler offendere nessuno, la questione delle regole non scritte che determinano le condizioni di possibilità dell’agire all’interno del recinto, simbolo storico del patrimonio di tutti trasformato in proprietà di pochi, bandecchiano. Tanto la Aniello, pasionaria movimentista pentastellata della prima ora, quanto Cardinali, già sindacalista Cgil, sono mossi da un’ipertrofica stima che hanno verso se stessi, un iperbolico autorappresentarsi li caratterizza tanto che, con modi e vie diversi, sono entrati di diritto nella fabbrica della meritocrazia fiabesca di Bandecchi del: non mi interessa da dove vengono, i migliori li prendo con me. Peccato che la fiaba meritocratica artatamente modellata abbia come presupposto iper/realistico che la megalomania debba essere accompagnata dall’acquiescenza assoluta nei confronti dell’esaminatore unico, padrone assoluto del giudizio finale. Insomma se la megalomania è il telaio, l’obbedire acritico è la benzina che fa muovere la macchina, che altrimenti rimarrebbe scheletro immobile nell’osservazione edonista del proprio autocompiacimento. Aniello ha visto le condizioni per una rivoluzione ambientalista agita dai guerrieri del verde pilotati dalla competenza assessorile acquisita negli anni del grillismo che doveva aprire scatolette e che ha finito spesso con l’essere tonno, scordandosi che il suo andare contro i poteri forti sarebbe stato lasciato libero di librarsi finché funzionale agli interessi del “dominus”. Cardinali invece ha capito che tutte le conoscenze acquisite nel tempo, grazie al contributo costante degli iscritti Cgil, era ora di spenderle nella difesa strenua non dei lavoratori contribuenti, ma, sia chiaro per puro e incondizionato amore verso la città del patrono dell’amore, al servizio di un sindaco “sgrammaticato” che aveva bisogno come il pane di una figura professionale “altamente qualificata” come la sua.

Tanto la passione per il verde e la salute dei cittadini incarnata da Aniello, quanto l’amore assoluto di Cardinali verso la propria città, sono (erano nel caso della Aniello) sempre e comunque condizionati non dalla propria volontà, ma dall’allineamento dei propri pensieri con gli interessi e il volere del sindaco parà. Senza scomodare Orwell e il distopico “1984”, senza rifarsi al teatrino ambulante “del bullo e della stronza” messo in scena da Meloni con De Luca come comparsa, è forse il caso di far rientrare la querelle Aniello/Cardinali, che rischia di avere strascichi infiniti, nella giocosa usanza del nascondersi per riapparire tipica del Bu-bu sèttete che tanto ridere fa grandi e piccini. Ovviamente non c’è niente da ridere, mentre molto ci sarebbe da piangere, sia per i bimbi innocenti, che per i grandi complici, che farebbero bene, in un sussulto di dignità, a mantenere chiuse le mani sul viso senza riaprirle, visto lo spettacolo messo in scena, in una aggiornata versione del bu-bu che non conosce sèttete. Tranquilli i bimbi vi capiranno, lo spettacolo disgusta anche loro, anche loro percepiscono senza sapere che non c’è proprio niente da ridere.

Foto di copertina da pexels.com

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