Alle Comunali di giugno sono andati al voto circa 400 mila umbri per eleggere sindaci e consigli di sessanta municipi. Slogan, interviste, promesse, colpi bassi e varie amenità hanno tenuto banco per settimane. Nel comune capoluogo di regione ci si è pure soffermati con acribia su una foto col pugno chiuso e su una stella tatuata sul polso della persona che sarebbe poi diventata sindaca; è stato anche agitato il fantasma della teoria gender, che avrebbe eroso la sessualità dei giovani perugini. A vederla a cose fatte si è trattato insomma di una campagna elettorale con punte di vaneggiamento, che infatti pare avere accecato chi voleva perdere (e c’è riuscito). Una sensazione confermata dal fatto che non si è invece toccato un punto che riguarda complessivamente la vita di oltre 9 mila lavoratrici e lavoratori suddivisi in 280 imprese della regione, e di circa 80 mila cittadini e cittadine che usufruiscono della loro assistenza. È la questione del rinnovo del contratto nazionale della cooperazione sociale.
La vicenda è eminentemente pubblica poiché i lavoratori e le lavoratrici del settore della cooperazione sociale gestiscono servizi di welfare municipale: dagli asili nido alle strutture per anziani, dai centri diurni per persone con disabilità ai servizi di refezione scolastica all’assistenza domiciliare. La squisita pubblicità della questione è testimoniata dal fatto che il 90 per cento dei ricavi delle cooperative sociali che assicurano questo tipo di servizi deriva dalla domanda dei comuni e delle due Aziende sanitarie locali della regione.
Ma qual è stato il rimosso della campagna elettorale? Questo: la parte pubblica affida questo tipo di servizi che non può o non vuole svolgere in house mediante contratti e convenzioni con il privato sociale. Si tratta di accordi il cui corrispettivo erogato dalla parte pubblica è utilizzato quasi esclusivamente come pagamento della forza lavoro impiegata, trattandosi di servizi ad altissima intensità di lavoro. Il rinnovo del contratto prevede un aumento del costo del lavoro per le cooperative che per l’anno in corso sarà del 5 per cento, pari a circa 10 milioni, e che a regime, cioè a partire dal 2026, sarà del 13 per cento, pari a 25 milioni.
Quelli previsti dal rinnovo del contratto sono aumenti in busta paga per operatori e operatrici che a regime saranno di circa 100 euro al mese. Si tratta di incrementi sacrosanti per garantire dignità e potere d’acquisto a persone che hanno nelle loro mani la vita di altre persone. Ma la faccenda, per come si è messa, rischia al tempo stesso di «penalizzare i lavoratori e mettere in crisi i servizi», come sottolinea il presidente di Legacoopsociali Umbria, Andrea Bernardoni. Perché? Perché pur trattandosi di servizi di rilevanza pubblica e appaltati dal pubblico, e pur essendo la parte economica quasi esclusivamente dedicata al pagamento dei salari, la parte pubblica, cioè la stragrande maggioranza dei comuni umbri, a distanza di cinque mesi dal rinnovo contrattuale non ha ancora adeguato al rialzo le tariffe dei servizi. Ciò significa che in questo momento le cooperative sociali si stanno sobbarcando l’aumento contrattuale del costo del lavoro nonostante gli appalti e le convenzioni siano stati sottoscritti quando i salari per operatori e operatrici erano più bassi. Non essendoci praticamente margini di profitto per le imprese, ciò significa che le cooperative sociali si stanno indebitando e questo, alla lunga, come sottolineato da Bernardoni, rischia di portare allo squilibrio di gestione numerose cooperative, con conseguenze sui posti di lavoro e sul conseguente scadimento dei servizi erogati.
La buona pratica da seguire c’è. Intanto, le due Asl dell’Umbria, per i servizi da esse appaltati – che ammontano a circa il 25 per cento del totale in Umbria – hanno comunicato che adegueranno le tariffe con effetto retroattivo dal 1° febbraio 2024, cioè dal momento in cui sono scattati gli aumenti. I comuni di Città di Castello e Orvieto hanno provveduto all’adeguamento a qualche mese dal rinnovo. A Perugia la giunta comunale uscente, in piena campagna elettorale, ha approvato invece un generico atto di indirizzo che non prevedeva alcun impegno ed è stato letto non a caso da più di qualcuno come una maldestra mossa da campagna elettorale, appunto. Anche perché l’esempio – chiaro e trasparente – cui guardare, esiste in realtà. La conferenza territoriale sociale e sanitaria dell’area metropolitana di Bologna ha approvato lo scorso 23 aprile l’aggiornamento delle tariffe dei servizi socio sanitari innalzandole del 5 per cento per l’anno in corso e applicando graduamente gli aumenti nelle modalità previste dal nuovo contratto nazionale per il 2025 e il 2026, secondo quanto si legge in una nota. L’area metropolitana di Bologna è una realtà che comprende 52 comuni per oltre un milione di abitanti, quindi un’istituzione che pesa più o meno come l’intera Umbria, terra in cui invece si procede a macchia di leopardo e nel cui comune capoluogo la ex maggioranza parlava di gender negli stessi giorni in cui, come foglia di fico per una questione che riguarda migliaia di persone, adottava un atto che non prevedeva alcun impegno concreto. Magari, ora che le campagne elettorali sono finite, sarà il caso di pensare alle cose concrete per davvero.