La campagna rigogliosa e la sera che arriva in una calda giornata di inizio luglio. Il brusio di centinaia di persone nell’attesa scomposta prima dello spettacolo. Il teatro è la casa di reclusione di Spoleto. Il carcere. L’occasione rara di entrare in un sistema chiuso, o meglio, blindato. Il sipario che si apre è un doppio cancello che dà sul perimetro interno della struttura. Il pubblico cammina silenzioso, condotto da avvenimenti, movimenti e suoni. Dal caos, origine di ogni cosa, come insegna la mitologia greca, nascono la forma e l’equilibrio. Gli attori, in uniforme color sabbia, da silenziosi si fanno rumorosi. In una sorta di danza battono le mani sul petto e poi incrociano le braccia al cielo, quasi invocando una preghiera. Tutt’intorno finestre sbarrate che si illuminano e si spengono. Ogni tanto, la sagoma scura di qualche testa si affaccia per assistere allo spettacolo. Alla fine del percorso si approda al palcoscenico, impreziosito da una scenografia minimale e potente. Le teste di toro e il colore rosso della struttura geometrica in cui sono inserite fanno pensare subito a lui: il Labirinto.
Lo spettacolo messo in scena trasforma la campagna circostante nell’isola di Creta, mentre intorno agli artisti e al pubblico si stagliano le mura del carcere-labirinto. Teseo, Minosse, il Minotauro, Dedalo, Icaro e tutti gli altri protagonisti del racconto parlano con accenti diversi, talvolta in lingue diverse. Arianna, interpretata dalla mezzosoprano Lucia Napoli, tende il filo rosso della salvezza, ma è il Minotauro che domina la scena con la sua irrequietezza mentre rivela la vita a cui è condannato, arrivando a supplicare la morte per poter essere libero.
La compagnia andata in scena è SineNomine, composta da detenuti e attori, frutto di un progetto che porta il teatro come strumento rieducativo all’interno della casa di reclusione di Spoleto. Un lavoro guidato con estro e lungimiranza dal direttore artistico della compagnia Giorgio Flamini, arricchito da una collaborazione artistica che spazia tra scrittura, danza e musica. Il risultato è un’opera di grande qualità. I detenuti recitano, in maniera impeccabile, testi riadattati di Esiodo, Pavese, Borges, Yourcenar. Tra il pubblico non ci sono familiari e parenti ad applaudire. La platea è composta da perfetti sconosciuti, tra cui spiccano personalità istituzionali come il Procuratore generale di Perugia, Fausto Cardella, e il Garante regionale dei diritti dei detenuti, Giuseppe Caforio.
Lo spettacolo “Creta”, inserito nel Festival dei Due Mondi di Spoleto, incarna perfettamente il tema della 67esima edizione: il mito. Mito che impone, per sua natura, un confronto, che presenta interrogativi sulla complessa relazione tra l’essere umano e la società. E quando il mito entra in carcere, la riflessione diviene ancor più urgente. Il Labirinto restituisce la solitudine e il disagio in cui vive l’intera comunità carceraria. A far riflettere sono anche i dati. Nel 2023 sono stati 69 i suicidi all’interno delle carceri italiane e da inizio gennaio ad oggi sono 52 i detenuti che si sono tolti la vita. In Umbria nel 2023 e fino ad aprile 2024 sono stati registrati 5 suicidi tra i detenuti, avvenuti tutti nel carcere di Terni. Numeri che sono storie, persone e famiglie. Numeri che gridano pietà, che richiedono riflettori puntati sullo stato delle carceri nel nostro paese che registrano un tasso di sovraffollamento elevato e ingestibile, come denuncia da anni l’associazione Antigone, per i diritti e le garanzie del sistema penale. Nel 2024 l’affollamento delle carceri tocca il 130 per cento, con alcuni istituti di detenzione che arrivano a un tasso di affollamento del 190 per cento. Ciò nonostante, molti istituti vengono chiusi e molti altri sono sotto organico. Tra questi anche la Casa di Reclusione di Spoleto, in cui a fine marzo scorso la polizia penitenziaria ha denunciato la mancanza di 100 poliziotti, vedendo in servizio attivo solo 193 agenti rispetto ai 292 previsti. Ma a mancare sono anche educatori, psichiatri, traduttori, assistenti sociali. Una situazione grave che rischia di rendere le carceri strutture di contenimento e non di rieducazione.
Depressione, abbandono, solitudine. È questa la condizione comune alla maggior parte dei detenuti. Per uscirne sarebbe necessaria una maggiore apertura, soprattutto nei casi di riconosciuta fragilità, dove un contatto frequente con la famiglia e gli affetti potrebbe salvare da un epilogo tragico. Basti pensare che, ad oggi, le telefonate concesse mensilmente ai detenuti sono 4, con una durata di 10 minuti. Dal dossier “Nodo alla gola”, l’ultimo rapporto sulle condizione di detenzione in Italia, risulta che molti dei suicidi si registrano nei mesi estivi, quando le attività educative e ricreative diminuiscono o si fermano per la pausa, e a fine pena, segno del totale smarrimento difronte al rientro nella società. Società da cui i detenuti si sentono lontani ed estranei. L’associazione Antigone richiede, per questo, di implementare progetti di volontariato in carcere e percorsi strutturati di reinserimento nella società, che coinvolgano gli enti territoriali. Per non lasciare il detenuto solo, sia dentro che fuori dal carcere.
“Despondere spem munus nostrum”, si legge una volta dentro alla Casa di Reclusione di Spoleto. È il motto della polizia penitenziaria. Garantire la speranza è il nostro dovere. E quando, per due sere, il carcere si trasforma in teatro, quella speranza si tocca con mano. Fa commuovere. Invita a riflettere, come vuole il mito.
La speranza non può essere rinchiusa tra cancelli e filo spinato. La speranza non può rimanere oltre le mura imponenti che spiccano sulla rigogliosa campagna umbra. Il filo rosso, la salvezza, è l’incontro dei due mondi. Il filo rosso, come la campana che suona alla fine del componimento di John Donne, ci ricorda che nessun uomo è un’isola, ma che ciascuno è parte del tutto. Siamo chiamati all’empatia, a fare nostra la sofferenza e la solitudine dell’altro. Figlio, come noi, della stessa umanità.