Le democrazie, strette come sono tra il falso mito dell’efficienza prestazionale e la realtà concreta della necessità di rispettare il volere della sovranità popolare, sembrano attraversare oggigiorno una crisi di difficile definizione e di complessa soluzione. Non è un caso che nelle sagge osservazioni del presidente Mattarella sul rischio di assolutismo della maggioranza e nelle risibili risposte, una sorta di fanciullesco specchio riflesso rovesciato, del ministro Salvini, che parla a sua insaputa di dittatura della minoranza, vi siano degli elementi inconfutabili di realtà coincidenti, per quanto le osservazioni del secondo pretendano goffamente di ribaltare gli allarmi del primo.
La democrazia del presente deve fare i conti, seguendo uno schematismo analitico grossolano e insufficiente, con le crisi sistemiche cicliche (dettate cioè dal modello economico), con le crisi indotte più o meno strumentalmente dalla volontà/incapacità della politica (guerre e cataclismi ambientali), con il confronto asimmetrico (in termini di capacità decisionale oggi scambiata per efficienza) con forme di governo assoluto che non prevedono il ricorso alle urne se non mascherato; e, infine, con la crisi interna che questa serie di fattori (a cui ne andrebbero aggiunti molti altri) ha generato nelle sue radici più profonde.
Applichiamo un’ulteriore cesura metodologica limitandoci allo spazio europeo che ha rinnovato ultimamente la propria composizione allargata – così allargata da avere Orban a rappresentarlo formalmente – e alle principali nazioni, Gran Bretagna inclusa nonostante l’autoesclusione referendaria, che hanno visto eleggere il proprio Parlamento. Diciamo che la democrazia trova le proprie fondamenta nella partecipazione popolare (il diritto cioè di ciascun cittadino di prendere parte alle elezioni) e nella rispondenza tra il volere popolare e i seggi espressi (nel rispetto quindi della sovranità). Quello che è vitale per ogni democrazia è che alle urne vada il numero più alto possibile di elettori e che i voti di tutti gli elettori partecipanti siano direttamente riproducibili nei vari parlamenti. I due assi portanti della democrazia sono da tempo in un corto circuito che non sembra avere soluzione. I cittadini, per una serie innumerevoli di ragioni, tra cui le principali sono il “discrimine di classe” (la sottrazione senza speranza dei ceti che più soffrono dal ricorso alle urne) e una sfiducia generalizzata con sfumature di qualunquismo verso la casta politica e con essa verso la politica stessa, nel corso degli ultimi trent’anni hanno iniziato, senza distinzione geografica, a disertare in numero crescente il diritto al voto. Per suo conto la politica in crisi identitaria ha finito con il preferire, dove per vocazione storica dove per incapacità strutturale, sistemi maggioritari in cui la rappresentanza viene sacrificata in nome della governabilità, a sistemi proporzionali in cui la governabilità è diretta espressione della sovranità popolare. Mentre l’Europa vota con sistema proporzionale demandando la governabilità alla capacità politica del compromesso tra partiti con sensibilità differenti, quasi tutti i Paesi, con l’eccezione della Germania, si affidano alla matematica fatta di sperequazioni del sistema maggioritario, che oltretutto, basta osservare i risultati francesi, non sempre garantisce granitici governi. Mentre l’Europa trova la sua maggioranza dovendo fare i conti con la sovranità popolare, con un sistema di alleanze che nasce giocoforza dai risultati elettorali, gran parte degli stati europei costruisce invece la propria maggioranza attraverso un sistema di coalizione che precede la volontà popolare adeguandosi ai meccanismi elettorali vigenti. Sistemi elettorali che vedono un maggioritario più o meno spinto e quindi senza girarci troppo intorno più o meno democratico.
Questa l’analisi a monte scendendo invece verso valle e entrando nel concreto dei risultati, possiamo notare due macro realtà, una interna ai singoli stati e l’altra, escludendo ovviamente la Gran Bretagna, nelle deformanti prospettive europee. Francia e Gran Bretagna infatti, rimanendo nell’analisi interna agli stati, ci danno un reale spaccato della democraticità delle due storiche democrazie. Da una parte, quella francese: un’affluenza da vecchio millennio, una partecipazione che non si vedeva da trent’anni e un volere popolare che nonostante le storture del sistema maggioritario impone un’alleanza parlamentare tra forze diverse se non incompatibili, pena l’ingovernabilità. Dall’altra parte, quella della gran Bretagna: un’affluenza da minimi storici in cui l’asimmetria del sistema elettorale garantisce governabilità grazie alla sproporzione dei seggi assegnati rispetto alle percentuali raggiunte. Mentre in Francia cioè il volere popolare chiaro, “no alla destra radicale lepenista”, dovrà trovare soluzione in Parlamento, in cui nulla risulta essere chiaro, in Gran Bretagna è il sistema elettorale a garantire a una minoranza il governo di tutto il Paese. In Gran Bretagna cioè l’assolutismo della maggioranza e la dittatura della minoranza trovano albergo nel sistema maggioritario spinto e nell’astensionismo crescente; in Francia, in un parossistico paradosso, tutto ciò viene respinto nonostante il maggioritario. In Francia cioè, grazie a un massiccio ricorso alle urne, tanto l’assolutismo della maggioranza (centrista), quanto la dittatura della minoranza (della destra lepenista) sono stai rispediti al mittente.
I mercati, che nulla hanno di democratico e tutto di asimmetrico, tendono a celebrare trionfalmente i risultati anglosassoni e vedere con sospetto e diffidenza quelli francesi. I mercati d’altronde vogliono stabilità, non democrazia. Passando al panorama europeo questa differenza di sistemi elettorali fa sì che le maggioranze dei singoli stati si trovino a frantumarsi e a ricomporsi in altro modo. La granitica maggioranza italiana, tanto sbandierata da se stessa e dall’informazione amica, in Europa non trova unità, ma tripartizione, in Europa vanno in ordine sparso chi con Orban, chi con il Ppe. L’Europa e il suo democratico sistema elettorale denudano la potenza sproporzionata del maggioritario lasciando con la foglia di fico i governi, il nostro ovviamente in prima fila, che pretendono, alternando il ringhio impotente con l’autocommiserazione lacrimevole, di condizionare le scelte rifacendosi a un fantomatico volere degli elettori. Volere degli elettori che l’alleanza storica europea tra popolari, liberali e socialdemocratici, più realista di ogni re, ha come sua fonte sorgiva; senza la forza dei numeri parlamentari e quindi del volere degli elettori, quell’alleanza imposta dalla realtà delle cose, mai vedrebbe luce.
Il mare è in tempesta e le barche a disposizione fanno acqua da quasi tutte le parti. Non resta che scegliere tra l’assolutismo della maggioranza e la dittatura della minoranza voluti dai mercati e la democrazia che può esser tale solo e soltanto se rende riproducibile il reale volere degli elettori, che più sono e meglio è. Insomma la democrazia prima di essere funzionale deve essere democratica, una volta che è compiutamente democratica la propria efficienza dipenderà dalle capacità dei politici di rifarsi alla scienza della mediazione e non più all’arte drammatica e farsesca della rappresentazione distorta che oggi in troppi pretendono imporre come unica ribalta al servizio di un’economia globale che tende a sovrastare confini e imporre metodi di governo e di (non) democrazia.