Uno dei punti fermi del modello berlusconiano, forse il vero pilastro, stava nella capacità di trasformare la realtà in verità comunicata, risiedeva nell’abilità di trasformare l’oggettività dell’accadimento in ricostruzione mediatica dello stesso. Non era importante ciò che accadeva, ma era fondamentale ciò che si raccontava. Berlusconi non si era inventato nulla ovviamente – la storia è piena di ribaltoni del reale, che spesso sono stati premessa se non prerequisito delle più tragiche vicende umane – aveva più semplicemente, grazie al potere mediatico accumulato, spostato l’oggetto del contendere sul piano a lui più conveniente, sul campo in cui sapeva di non avere rivali.
La virulenza con cui l’effimero delle televisioni private si è abbattuto sul Paese non si è limitata al campo della commercializzazione dei prodotti e della sacralizzazione dello svago e del disimpegno, ma ha minato le basi del convivere, assaltando con le sue regole teocratiche la politica, svuotando la politica di contenuto e sostituendo quel contenuto con la magia contenitiva e illusoria dello schermo che prometteva benessere mentre il telecomando garantiva libertà. Un rovesciamento totale rispetto alle istanze rivoluzionarie delle radio libere, vere apripista involontarie di ciò che sarebbe poi stato, che non avevano la velleità di svuotare la realtà per sostituirla con il racconto, ma la necessità di far vedere il mondo da un altro punto di vista. Avevano cioè l’esigenza di rompere la cortina di ferro della comunicazione di Stato aprendo squarci di libertà sostanziale perché auto/generata e non indotta.
Le radio libere hanno avuto poche colpe e molti meriti. È stata la repressione applicata metodicamente alle istanze di quella generazione che le ha inventate e costruite a predisporre le basi per il rovesciamento che ha coinvolto non solo la televisione, ma le radio stesse, che da libere sono divenute commerciali. L’assalto al palazzo d’inverno, si sarebbe detto un tempo, ha avuto le forme di un assedio che prometteva libertà (d’impresa e di accumulo) e distribuiva sogni (di benessere e agio). L’assediante si è spacciato come liberatore e gli assediati alla fine lo hanno visto come tale. La realtà non esiste se non nella forza di chi la racconta, se non nella voce di chi la riformula. E chi la racconta riformulandola a sua immagine e somiglianza ovviamente deve seguire delle regole base che sono presupposto e postfazione. Non annoiare, vedere sempre la parte mezza piena anche quando il bicchiere è praticamente vuoto, alimentare speranze creando illusioni, spargere ottimismo e promesse, nascondere il buio attraverso l’artificio della messa in scena, sceneggiatura e scenotecnica mezzi preferenziali al servizio di un fine poliforme coincidente con gli interessi di pochi soggetti se non riconducibili all’unità dell’impero berlusconiano. Insomma per riassumere quanto detto finora il vero lascito del cavaliere è riassumibile nello slogan: comunque vada sarà un successo.
Il controllo mediatico non basta se non si sa come usarlo, ma è essenziale nell’esercizio del potere contemporaneo. Il governo attuale, che di Berlusconi è figlio legittimo – per quanto il patriarca mal digerì il suo doversi fare da parte – non è poi così istruito e competente, ma fa, secondo nobile tradizione di parte, dell’utilizzo sistematico del controllo mediatico ragione d’essere. I soliloqui senza possibilità di confronto e quindi di critica del detto da parte di soggetti terzi messi in scena con cronometria svizzera e reiterazione temporale pubblicitaria dalla Meloni, i fischi che si trasformano magicamente in applausi, il festival delle città identitarie che relega in secondo piano il risultato delle elezioni francesi, la demonizzazione dei montaggi altrui quando non allineati con il volere del governo, le rendicontazioni mirabolanti che trasformano i balbettii in fluida arte oratoria e le divisioni (vedere Europa) in scelte tattiche che aprono prospettive mai avute. Si potrebbe andare avanti all’infinito con l’elenco del comunque vada sarà un successo che è base e altezza della destra-centro al potere.
Quello che interessa però non è questo, ma evidenziare come la dittatura del racconto che ridicolizza la realtà trasformandola in cane al guinzaglio con tanto di museruola, copra, con la lunghezza insufficiente della coperta sempre corta, l’inadeguatezza della classe dirigente attuale che è direttamente proporzionale alla rabbia virulenta con cui la stessa reagisce alla seppur minima critica, il cui esercizio in democrazia è tratto imprescindibile e qualificante, che in pochi tendono a muoverle. Perché tutto si potrà fraintendere e altrettanto opinare, ma leggere tra le righe che il vero discrimine per il posto di commissario in Europa (che ovviamente sarà un successo eclatante della capacità diplomatica della Meloni e non un atto dovuto verso uno dei Paesi fondatori) sia la conoscenza della lingua inglese che funge da elemento qualificante e non da minimo comune denominatore, toccare con mano le iperboli del ministro della Cultura che ieri arruola Dante tra i suoi e oggi pospone i viaggi erranti di Colombo alle rotte visionarie di Galileo senza dimenticare l’interscambiabilità tra Londra e New York – vedere l’enfasi con cui si pretende di accostare il genio universale di Leonardo con quello intergalattico di Berlusconi solo per giustificare l’intitolazione dell’aeroporto di Malpensa – e quanto altro ancora si potrebbe inanellare nella collana dello sproposito e dell’inidoneità, fa capire che il successo scontato dei nostri eroi altro non è che lo scavare una fossa, di per sé già profonda, di un Paese abituato a vedere nella canna del gas il tubo dell’aerosol. Più che comunque vada sarà un successo, ben che vada siamo fottuti.