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Pogačar, il più pantaniano dei contemporanei

 

L’attività fisica è origine di benessere, spesso nella società contemporanea, schiava come è dell’immagine, il benessere si fa coincidere con l’aspetto esteriore: il sudore non garantisce di per sé felicità, anche se la biochimica suggerisce altro, si è pienamente soddisfatti solo quando lo specchio, che risulta tiranno assoluto nel plastico edonismo delle palestre, rimanda l’immagine desiderata. Lo sport invece, inteso come pratica professionistica o amatoriale dell’attività fisica, unisce in un unico mondo le gesta di chi lo pratica e gli occhi di chi lo osserva. Le varie discipline sportive hanno un pubblico che storicamente le caratterizza e che giocoforza ne definisce il successo.

L’avvento delle televisioni, che attraverso l’esercizio della mondovisione hanno dato la possibilità di abbattere i confini ristretti degli spalti del campo di gara, hanno finito per dettare le condizioni. Hanno iniziato, grazie al loro potere, a condizionare non solo la stesura dei calendari, ma spesso e volentieri anche le regole del gioco. La virtualità dell’immagine propagata attraverso l’etere ha in breve preso il sopravvento sulla presenza fisica nel luogo di svolgimento. Le società sportive in particolare quelle professionistiche hanno sostituito gli incassi derivanti dal pubblico pagante con gli introiti ricavati dai diritti pagati dalle televisioni. Il carosello mediatico, in cui gli sponsor hanno un ruolo determinante, è diventato di fatto il vero metronomo dello sport, il divano del salotto ha preso il posto del seggiolino da stadio e l’abbonato televisivo quello dello spettatore. Gli stadi si sono progressivamente svuotati, i prezzi dei biglietti saliti vertiginosamente e la popolarità, l’accesso allo spettacolo delle classi meno abbienti, che da sempre hanno visto nel vincere dei propri idoli anche una forma di riscatto sociale, sempre più residuale.

E dire che lo sport e il “popolo” sono da sempre un tutt’uno. Non è un caso che spesso le gesta degli eroi sportivi trovino spazio nei libri di storia. L’uscita dalla guerra per il nostro Paese è stata caratterizzata per esempio dalla dualità ciclistica tra Coppi e Bartali e dai trionfi sul campo di calcio del Grande Torino. Tralasciando il calcio e restando nel mondo delle due ruote senza motore si può affermare che il ciclismo sia forse lo sport più popolare. Per due motivi fondamentali: la gratuità dell’evento, la possibilità di poter vivere la corsa sulla strada senza l’acquisto di alcun biglietto, condizionati solo dalle regole d’accesso e dalla chiusura del transito veicolare; la presenza di tanti appassionati, di tanti ciclisti della domenica che spesso raggiungono i punti di osservazione con le proprie biciclette. Una popolarità che a volte può sfociare in comportamenti irrituali se non di disturbo e di pericolosità nei confronti dei corridori, quasi sempre dettati dalla necessità di essere protagonisti non richiesti, di compiere azioni eclatanti e idiote al cospetto delle telecamere. Detto questo, evidenziata cioè la presenza dello scemo del villaggio come atto dovuto alla statistica, quello che va sottolineato è il clima di partecipazione, di tifo e di passione che le strade ci rimandano. Una festa di popolo che fa da contorno, insieme allo splendore dei paesaggi, tanto nelle scalate delle epiche montagne quanto negli arrivi in volata nei centri cittadini, alla fatica dei professionisti del pedale. Eh sì perché il ciclismo grazie alla sua natura itinerante offre dei contesti fisici che nessun altro sport al mondo è in grado di garantire, il ciclismo trasmesso dalle immancabili televisioni offre uno spettacolo (di arte, di natura, di cultura) che può coinvolgere e far emozionare tutti, anche chi del ciclismo sa poco e niente, anche chi del ciclismo se ne infischia proprio.

Fatica individuale, quella del ciclista, senza soluzione di continuità che trova mitigazione e riconoscenza nella mutualità gerarchica di squadra, nella presenza cioè di gregari al servizio dei rispettivi capitani, una dedizione totale che caratterizza tutti nel rispetto dei ruoli differenti, un unico vincitore che per essere tale abbisogna obbligatoriamente dell’aiuto dei compagni. Perché nel ciclismo se il partecipare è elemento di etica comune, il vincere rimane obiettivo principale. Nel ciclismo non si fanno prigionieri, chi più forza ha, più forza mette nei pedali, senza badare troppo al sottile. Sotto sforzo d’altronde l’ossigenazione del cervello risulta essere sempre precaria. Rispetto assoluto per la fatica dell’altro che è fatica propria, ma niente sconti, le braccia al cielo possono essere al massimo due, non di più dato che il fotofinish riesce a trovare supremazia anche nello scarto millimetrico. La salita la cui pendenza è direttamente proporzionale tanto allo sforzo del corridore quanto all’esaltazione del tifoso, lo zigzagare tortuoso e stretto verso il cielo che sottrae ossigeno con lineare temporalità, il senso di solitaria compagnia segnato dal sudore, le allucinazioni da fatica, le crisi di fame e quelle di freddo, le borracce che garantiscono al tempo stesso idratazione e refrigerio (nel ciclismo di oggi tenere bassa la temperatura corporea è necessità ineludibile), gli ultimi ritrovati alimentari che rilasciano zuccheri immediati, e poi giù in picchiata perché la discesa è importante quanto la salita, il tirare i freni il meno possibile e al momento giusto, il saper guidare la bici senza temere il rischio sempre presente della caduta, in particolare in caso di pioggia, e poi i ventagli dettati dal vento laterale negli infiniti tratti di pianura e poi ancora l’abilità di sapersi comportare durante i momenti frenetici e compulsivi della volata, e infine la capacità di tenere la posizione aerodinamica e con essa la velocità nelle cronometro individuali, prove in cui la squadra si vaporizza e il singolo combatte con se stesso.

Il ciclismo moderno prevede che l’atleta sia completo, sia cioè in grado di andare forte in ogni occasione e di sapersi comportare nei momenti di pericolo di gruppo. Indurain dava minuti di distacco a tutti durante le crono e teneva il passo in salita, Pantani al contrario dominava lo scosceso tanto nell’andare all’insù quanto nel lanciarsi nel vuoto della discesa, Armstrong regnava sovrano e solo in seguito si è capito il perché, solo troppo tardi è emersa la triste realtà del doping scientifico. Oggi i quattro più forti (Evenepoel, Roglic, Pogačar e Vingegaard) sono in grado di vincere su ogni tipo di percorso tranne che in volata. La tecnologia, regina di corte, attraverso il computerino disvela il tracciato in divenire e monitora secondo per secondo le condizioni fisiche dell’atleta, tanto che il controllo maniacale dei watt prodotti è parametro irrinunciabile. Grandi potentati economici garantiscono investimenti crescenti con conseguenti ritorni di immagine e di denari. A differenza dei tempi di Pantani – vero e proprio totem senza confini distrutto dal sospetto che si è fatto accusa infamante, in cui la parte tecnologica era ancora residuale e il “capitale umano” preponderante – oggi il ciclista ha allenamenti fatti di metodo e scienza, la sua alimentazione è rigidamente controllata, le sue prestazioni sempre più monitorate, il suo pedalare è alla ricerca continua di una posizione ottimale attraverso studi aerodinamici e non, i suoi successi sono figli di una impostazione mentale che dà del tu alla robotica. Pantani quando si sentiva bene aveva l’abitudine di lanciare segnali ai suoi avversari e ai suoi tifosi, ovviamente l’inerpicarsi della strada era condizione imprescindibile, ma la danza verso il cielo, quel continuo alzarsi e rialzarsi sui pedali che tanto male faceva a tutti gli altri, iniziava solo dopo aver gettato in terra la bandana che lo rendeva Pirata, nessuna fuga solitaria poteva essere possibile in assenza di esplicito avvertimento.

Oggi i corridori vestono maschere che non fanno trapelare né segnali né sentimenti, l’ammiraglia impartisce ordini e la squadra agisce di conseguenza senza mai staccare gli occhi dal piccolo schermo montato sul manubrio che seriale fornisce dati e predice percorsi. Oggi i corridori più forti vivono nel principato di Monaco e hanno conti faraonici nonostante la giovane età. Denaro e gloria ripagano di ogni sforzo, ma sono il piacere dell’andare in bicicletta e la passione per il pedale il vero patrimonio comune di questi giovani ragazzi dalle prestazioni da automi. Oggi il podio del Tour de France ha visto salire tre fenomeni che in tre fanno 76 anni in rappresentanza di tre Paesi la cui somma di abitanti non arriva ai venti milioni. Una bella favola scritta con il sudore e la tenacia a mo’ di inchiostro, con il sospetto e la diffidenza sempre pronti a spargere dubbi sul rispetto delle regole. Vanno troppo forte, non è possibile! Questo il sottotitolo fantasma che aleggia sovrano sulla testa dei ciclisti.

Ma rimaniamo nel mondo della favola senza tempo perché quest’anno il più fenomeno tra i quattro fenomeni è riuscito a vincere, come per ultimo aveva fatto Marco Pantani nel 1998, sia il giro d’Italia che il Tour de France. Tadej Pogačar, questo il suo nome e cognome, ha virtualmente preso il testimone del mito dalle mani del Pirata, che glielo ha dato sfornando il migliore tra i sorrisi a disposizione visto che lo sloveno è al pari del romagnolo uomo che difficilmente rispetta gli schemi della tattica, è corridore che quando ne ha scatta, che quando si sente bene va in fuga a prescindere dagli ordini impartiti dall’ammiraglia, non importa la presunta convenienza, al diavolo la sacrosanta prudenza, il ciclismo è gioia e non c’è miglior interprete di chi vede l’attacco continuo come unico spartito praticabile. La fragilità intima e umana di Marco Pantani ha avuto il sopravvento sul sistema che lo ha glorificato prima e demonizzato poi consigliandogli perfido e cinico la morte solitaria tra le pareti fuori stagione di un hotel qualsiasi della riviera adriatica, nessuno degli appassionati ha però dimenticato il suo scalare, nessuno tra gli innamorati del ciclismo ha scordato il suo ostinato rilanciare sui pedali, la sua bandana, il suo ghigno, nemmeno Tadej Pogačar che nel luglio del 1998 ancora non era nato, ma che ha avuto il merito e l’onore di essere il più umano tra i robotici, il più pantaniano tra i contemporanei, degno successore nella staffetta tinta di rosa e di giallo illuminata dal sorriso sornione di un Pirata oltre la leggenda. Grazie a te Tadej la popolarità del ciclismo continua imperterrita a vivere di favole nonostante il potere infinito di sponsor e televisioni che ti ha costruito e che un giorno potrebbe distruggerti, questo l’intimo pensiero di ogni appassionato di ciclismo. Bravo Tadej, queste le ultime parole di Marco Pantani prima di tornare nel labirinto senza uscita della sua fragilità.

Nella foto, tratta da wikimedia commons, Tadej Pogačar al giro di Slovenia nel 2021

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