Le Olimpiadi, al di là di ogni strumentalizzazione sistemica e ben oltre il concreto delle polemiche legate all’invasività dell’evento straordinario in termini di compatibilità ambientale e sostenibilità economica, rimangono per ogni atleta e per ciascun appassionato di sport il momento più alto, un punto di arrivo che può essere anche partenza caratterizzato dall’infinita attesa determinata dalla cadenza quadriennale. Le Olimpiadi, anche quando la guerra fredda vedeva nel boicottaggio reciproco uno strumento di (non) partecipazione, sono un momento di incontro universale declinato propriamente in spirito. Lo spirito olimpico cioè viene prima di tutto: il rispetto delle regole che è in primo luogo rispetto dell’avversario; il partecipare come valore istitutivo; il gratificare lo spirito agonistico attraverso la premiazione fatta di tre medaglie dal valore differente; il villaggio che è un miscuglio di usi, culture e contraddizioni con i preservativi a mo’ di precauzione e i letti come mezzi disincentivanti e via dicendo.
Certo, come ogni evento complesso anche le Olimpiadi sono governate dalla politica, anche le Olimpiadi devono sottostare alle regole non scritte dei rapporti di forza che si contrappongono all’etereo dello spirito, anche le Olimpiadi subiscono gli strascichi inevitabili delle guerre che non hanno più la forza, ammesso che l’abbiano mai avuta, di sospendere seppur con temporalità limitata. Le Olimpiadi cioè sono sempre meno isola felice e sempre più parte integrante di un mondo che vede la competizione feroce e la contrapposizione manichea come elementi identitari.
Ovviamente, tornando allo spirito e con esso alle miserie dell’agonismo che fanno lo splendore dello sport, immancabilmente le polemiche relative all’incompetenza arbitrale che mai è malafede, alla scarsa obiettività dei giudici che mai è prezzolata, ai veri e propri furti subiti per un fischio di troppo o una decisione rovesciata, sono contorno ineludibile, cornice senza alternativa. Così come l’esaltazione patriottica con conseguente sovraesposizione mediatica delle discipline dove la nazione di riferimento trionfa, tanto che il badminton può diventare sport per eccellenza e l’atletica leggera residualità, al netto delle tradizioni identitarie di ogni Paese. Insomma la ritualità quadriennale che esalta lo spirito senza mai dimenticare la materia è fatta di codici universali che negano l’universalità e di particolarismi diffusi che pretendono quell’universalità negata.
In questo tutto che contiene il suo contrario le giornate parigine ci hanno offerto, rimanendo nei confini angusti italiani, tre facce della stessa medaglia: l’intervista televisiva di Benedetta Pilato; i due ori ottenuti nel judo femminile e nella canoa maschile, e l’incontro di pugilato tra la nostra Carini e l’algerina (algerino per la destra politica italiana e non solo) Khelif. Il miglior spirito olimpico e la peggiore propaganda politica, questa in sintesi la medaglia che ovviamente di facce ne ha due. La prima ci racconta la contentezza assoluta di Benedetta Pilato di essere arrivata quarta nei 100 metri rana, la gioia di chi oltre lo sconforto della cosiddetta medaglia di legno vede la bellezza assoluta, trova nella partecipazione, nel semplice esser stata presente all’evento, ragione di entusiasmo, ci regala, come sua seconda metà, la favola di un Paese bresciano di meno di diecimila abitanti che in mezz’ora vince in due discipline distanti nella pratica e differenziate nel genere la medaglia d’oro. Il suono delle campane a festa di Roncadelle, paese di Giovanni De Gennaro, medaglia d’oro nella canoa slalom K1, e di Alice Bellandi, campionessa olimpica nel judo categoria 78 kg, è la migliore delle colonne sonore possibili, senza religione e molto orgoglio di appartenenza, per aggiungere il lirico della musica al fiabesco dello sport. Un’intervista discussa in cui il pianto si è alternato alle parole attraverso cui la giovane tarantina emigrata al nord per scelta sportiva ha rivendicato l’assoluto privilegio di esser stata protagonista non tanto della competizione agonistica, ma dell’insieme chiamato Olimpiade, un festante scampanare di un Paese che grida ai quattro venti l’orgoglio provato per due dei suoi figli che tramite il gesto sportivo lo hanno messo per un po’ al centro del mondo.
E poi la solita Italietta, e non solo, della propaganda becera che riduce la complessità a banalizzazione e l’eterogenea sfera dei diritti a monolito di rigidità ideologica. Perché le polemiche sull’iper/androginismo della pugile algerina che hanno preceduto e caratterizzato l’incontro con la Carini, eletta a vittima sacrificale di un sistema iniquo che non garantisce “armi pari”, tanto per usare la gergalità impropria della presidente Meloni, sono cartina tornasole della politica italiana che irrompe con tutta la sgrammaticata ingerenza nelle regole olimpiche. Il ritiro della Carini, che ha dato l’impressione di esser salita sul ring solo per avere la scusa di scendere il prima possibile, è stato alimentato indirettamente dalla canea scatenata polifonicamente dalla destra, con i post di Salvini, gli inviti a palazzo di La Russa, le interviste di Meloni, gli interventi in Parlamento e l’immancabile coreografico supporto dei giornali di riferimento e d’area. La patria tutta cercava la vittima del complotto per rimarcare la rigida linea di demarcazione tra uomo e donna a cui tanto tengono e per cui tanto si battono, e la vittima inconsciamente è salita sul ring non da pugile alle Olimpiadi ma da martire sul patibolo. L’imbarazzo evidente del suo angolo non tanto dopo il colpo sul naso quanto durante la pausa precedente, camuffata con l’esigenza di allacciare il caschetto, la dice lunga sul fatto che non si stava praticando (nobile) sport, ma si era in balia di una (becera) politica di discriminazione e vittimismo.
Imane Khelif ha continuato imperterrita il suo percorso meritandosi il diritto di competere per la medaglia d’oro, mentre le sue avversarie, pur denunciando a volte la scorrettezza dei suoi colpi definendoli maschi, come fatto dalla pugile delle terre di Orban, sono salite sul ring perdendo ai punti, evidenziando così, il ridicolo della nostra destra solita trasformare, a colpi di clava nelle mani dell’orbo, la politica in propaganda e la tutela dei diritti in gogna. Eh sì, perché la vetrinizzazione imposta alla vicenda olimpica ricorda lo spavaldo Salvini che contornato da telecamere domandava retoricamente al malcapitato di turno al citofono: «Scusi lei spaccia?». Ecco oggi l’intera destra italiana e non solo è tornata al citofono con la stessa spocchia e la medesima retorica: scusi lei che è maschio perché se la prende con le donne? O meglio la destra italiana lo show mediatico che lapidario decreta sentenze non lo ha mai abbandonato, il tritacarne ha continuato imperterrito a macinare diritti mentre il citofono ne ha amplificato l’architettura demagogica.
A margine le dichiarazioni rilasciate da Mark Adams, non rivoluzionario transgender, ma moderato portavoce del Cio (Comitato Olimpico Internazionale): «Queste pugili sono del tutto idonee, sono donne sui loro passaporti, sono donne che hanno gareggiato alle Olimpiadi di Tokyo e gareggiano da molti anni, penso che abbiamo tutti la responsabilità di abbassare i toni e non trasformarla in una caccia alle streghe». Già la famigerata caccia alle streghe, pratica senza tempo che proprio nulla ha dello spirito olimpico.