Affrontare il disagio e i problemi sociali a livello soltanto individuale è sbagliato e non è efficace; le questioni collettive vanno risolte a livello collettivo e con politiche collettive, e non devono essere scaricate sui singoli (che non ne sono responsabili). Se dipendono dal contesto sociale più ampio, disagio, sofferenza, avversità della vita sono esiti individuali di meccanismi collettivi. Per esempio, essere poveri comporta un’enorme difficoltà personale, ma la povertà è una questione pubblica; abortire è una delle peggiori esperienze che una donna possa provare nella sua esistenza, ma le gravidanze indesiderate e il diritto a interromperle sono questioni pubbliche; chi non può fare a meno dell’alcol sperimenta una condizione di vita pessima, ma quella delle dipendenze è una questione pubblica.
Non solo: molto spesso si è poveri per effetto di un licenziamento dovuto ad una delocalizzazione di un’azienda in un luogo dove il lavoro costa meno, il che non avviene per volontà del singolo; una gravidanza indesiderata può verificarsi in casi di scarsa istruzione, ignoranza degli strumenti anticoncezionali o peggio rapporti squilibrati tra i generi, il che non è frutto dello specifico comportamento individuale; una persona con dipendenza dall’alcol può finire in questa situazione, ad esempio, per poter reggere ritmi lavorativi insostenibili, che non dipendono da lui, ma dal tipo di rapporti lavorativi predominante nel contesto più ampio (di cui di nuovo certo il singolo non è responsabile).
Possiamo arrivare a queste conclusioni utilizzando alcune riflessioni di Charles Wright Mills (1916-1962), sociologo statunitense assai stimolante che nel 1959 ha scritto uno splendido testo, L’immaginazione sociologica. In esso egli sostiene che molto spesso l’individuo ha la sensazione di «sentirsi in trappola», che la sua vita sia «tutta una serie di trabocchetti» e che i problemi e le difficoltà che sperimenta siano circoscritti alla sua orbita personale e alla cerchia ristretta in cui vive. Si tratta di una sensazione corretta, secondo Wright Mills: l’esperienza di tutti i giorni, la visione, il potere di un uomo non vanno oltre il lavoro, la famiglia, il vicinato, insomma gli ambienti più prossimi alla quotidianità; in ambiti diversi dal proprio, ci si muove male, si rimane spettatori.
In realtà, ogni individuo è immerso nei mutamenti strutturali della società a cui partecipa, per cui non è possibile comprendere appieno la vita dei singoli senza capire i meccanismi collettivi e complessivi più ampi. Operazione tutt’altro che facile dal punto di vista individuale, perché quello che Wright Mills chiama il «processo di formazione della storia» va ovviamente oltre la capacità del singolo di orientarsi in esso secondo le forme e le idee a lui più congeniali: «L’uomo ordinario» sente «di non poter dominare i mondi più vasti che improvvisamente gli si aprono davanti» e non riesce «a comprendere il significato che il suo secolo ha per la sua vita individuale»; da qui la sensazione di «essere in trappola».
Non si tratta soltanto di «bisogno di cognizioni», in un’epoca in cui (siamo nel 1959, figuriamoci cosa potrebbe dirsi oggi) l’informazione «domina e spesso supera la capacità dell’uomo di assimilarla»; non è neppure «soltanto bisogno di possedere le arti del ragionamento». Servirebbe una «qualità della mente» che aiuti l’individuo ad arrivare a una «lucida sintesi di quel che accade e può accadere nel mondo e in lui». Qualcosa, scrive Wright Mills, che giornalisti, studiosi, artisti, uomini pubblici e scienziati dovrebbero chiedere all’immaginazione sociologica: un approccio, potremmo dire, forse anche un metodo, che permette «di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore» dell’uomo; che consente di districarsi nel caos dell’esperienza quotidiana e che riconduce «il disagio personale» ai «turbamenti oggettivi della società».
Per la scienza sociale, la prima lezione che se ne apprende è che «l’individuo può comprendere la propria esperienza e valutare il proprio destino soltanto collocandosi dentro la propria epoca»; che può conoscere opportunità e possibilità «soltanto rendendosi conto di quelle di tutti gli individui nelle sue stesse condizioni». L’immaginazione sociologica permette di capire ciò che avviene nel mondo e di «afferrare biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell’ambito della società»: cioè, di comprendere ciò che avviene agli individui «in quanto punti di intersezione della biografia e della storia nella società». Per biografia va intesa la vita della persona, quella specie di cronologia della nostra esistenza; la storia, invece, consiste nello sconfinato processo umano preso nel suo complesso.
Uno strumento essenziale dell’immaginazione sociologica, scrive Wright Mills, è la distinzione, cruciale, tra «difficoltà personali d’ambiente» (troubles) e «problemi pubblici di struttura sociale» (issues). Le difficoltà prendono corpo «nell’ambito del carattere dell’individuo e dei suoi rapporti immediati con il prossimo» e sono «connesse con il suo io e con quelle zone circoscritte di vita sociale delle quali è direttamente e personalmente conscio». Definizione e risoluzione delle difficoltà «appartengono all’individuo come entità biologica e al suo ambiente immediato, cioè al quadro sociale che si apre direttamente alla sua esperienza personale e, entro certi limiti, alla sua attività volontaria». Le difficoltà, perciò, sono questioni personali. I problemi, invece, «trascendono l’ambiente particolare dell’individuo e i confini della sua vita interiore» e si riferiscono ai «molti ambienti» che formano la società nella quale essi stessi «si sovrappongono e si compenetrano, formando la più vasta struttura della vita sociale e storica». I problemi, perciò, sono questioni pubbliche.
Potremmo dire, forse, che le difficoltà hanno a che fare con le biografie individuali; i problemi riguardano la storia collettiva. Per chiarire meglio, Wright Mills porta degli esempi. Il più efficace è quello della disoccupazione: «Quando in una città di 100.000 abitanti v’è un solo disoccupato, si tratta di una difficoltà personale, e per superarla si prendono in esame il carattere dell’uomo, le sue capacità, le possibilità immediate. Quando invece in una nazione di 50 milioni di cittadini, vi sono 15 milioni di disoccupati, allora si tratta di un problema e non si può sperare di trovarne la soluzione nell’ambito delle possibilità che si offrono ai singoli individui». In questo caso «è il castello delle possibilità che è crollato»; per trovare le soluzioni al problema (ma anche per definirlo, aspetto tutt’altro che secondario) si è obbligati a «considerare le istituzioni economiche e politiche della società, e non più soltanto la situazione personale e il carattere di un determinato numero di individui presi singolarmente».
Anche l’esempio della guerra è significativo: le difficoltà personali che questa crea consistono «nel come sopravvivere a essa o morirvi con onore, come ricavarne denaro, come portarsi nella zona di sicurezza degli alti gradi, o invece come contribuire a farla cessare». A livello strutturale, invece, il problema della guerra riguarda le sue cause, chi sono coloro che ricoprono le posizioni di comando, quali gli effetti sull’economia e la politica, quali i rapporti tra gli Stati. Wright Mills cita anche il matrimonio: due persone possono sperimentare difficoltà personali nell’unione; ma quando la percentuale delle rotture del legame, poniamo, nei primi quattro anni è di 25 su 100, «allora significa che esiste un problema strutturale», che tocca le istituzioni del matrimonio e della famiglia nel loro complesso.
Ebbene, «finché un’economia è organizzata in modo tale da presentare delle depressioni, il problema della disoccupazione sfugge a qualsiasi soluzione personale»; finché la guerra ha a che fare con i rapporti tra gli Stati, «l’individuo ordinario sarà incapace di risolvere all’interno della propria orbita ristretta» le difficoltà che si creano; finché (e qui forse Wright Mills scriverebbe in maniera diversa, per la società di oggi) l’istituto della famiglia prevede la donna come «adorabile schiava dell’uomo» e l’uomo «il dispensatore di alimenti che non sa vivere senza la donna», il problema di separazioni e divorzi continuerà a non poter essere affrontato con successo sul piano personale.
Insomma: «Ciò che noi sperimentiamo in vari ambienti specifici è spesso determinato da mutamenti strutturali. Per comprendere quindi i mutamenti che si verificano in molti ambienti personali dobbiamo guardare al di là di questi ambienti».
Se utilizziamo i concetti e i ragionamenti di Wright Mills nel campo delle politiche sociali, e quindi delle risposte collettive finalizzate a migliorare il benessere di tutti, possiamo ben afferrare il perché non solo non sia giusto, ma neanche efficace trattare il disagio, la sofferenza, le avversità della vita che dipendono dal contesto sociale più ampio come difficoltà personali: si tratta infatti di esiti individuali di meccanismi collettivi, nei termini proposti dal sociologo statunitense.
I problemi sociali (issues) non vanno ridotti a difficoltà personali (troubles). Così dovrebbero ragionare i sistemi di welfare: non scaricare sul singolo le ricadute negative di processi sociali più ampi e non responsabilizzare l’individuo di fronte a disagi di cui non è colpevole.