Dalla telekabul del Tg3 di Sandro Curzi alla telekaput del Tg1 di Gian Marco Chiocci, dal telegiornale di parte e autonomo da ogni partito finanche da quello di riferimento (Pci) al telegiornale di stato al servizio del governo, dalla rivoluzione televisiva targata Guglielmi alla restaurazione comunicativa postberlusconiana. Non c’è che dire se non di tutto di più, rifacendosi al noto slogan della televisione pubblica, anche se il continuo scivolare verso il basso sia in termini di indipendenza dal potere che di contenuti veicolati porterebbe a dire piuttosto di niente e di meno.
Lo spazio dedicato dal direttore del TG1 a un impresentabile ministro della Cultura da solo descrive come più che di servizio pubblico si possa parlare di morte civile dello stesso (telekaput appunto). Dopo aver respinto le dimissioni con risoluta fermezza, a quanto pare la presidente del Consiglio ha imposto tanto al ministro direttamente quanto al direttore del Tg1 per telepatico intendere lo spazio “Maria De Filippi”, l’angolo del C’è posta per te, ed è così che il Tg del canale di punta è stato utilizzato a uso e consumo di una risibile faccenda di stato che la destra turbata e mai doma tenta di derubricare a gossip, ribaltando così le parti, come da usata e abusata tradizione, e facendo sì che l’imbarazzante e imbarazzato ministro, da colpevole di inadeguatezza divenisse vittima di violazione della privacy. Un paradosso immerso nel parossismo ha fatto sì che la demonizzazione del buco della serratura, dell’osservare con il segreto fare figlio dell’ambiguo proposito, si prendesse la ribalta della più visibile informazione.
Questa destra ha dimostrato di avere come tratto tipico il buttare in piazza il proprio privato per poi lamentarsi dell’ingerenza dei media nella vita intima, fino a quando l’esposizione pubblica della sfera personale è autogestita direttamente o indirettamente bene, quando per forza di cose essendo divenuta pubblica sfugge al controllo, allora si inizia a gridare al complotto, si inizia a denunciare la trivialità del gossip in difesa della sacralità di una famiglia sempre meno tradizionale. Nell’incertezza buttare la palla in tribuna, si direbbe nel mondo del calcio per evitare conseguenze peggiori, nel disagio buttarla in caciara è la traduzione fattuale della destra del dogma calcistico per eccellenza. Il cane si morde la coda, la trottola gira vorticosa su se stessa, l’uovo e la gallina si contendono da sempre la primogenitura, lo struzzo immerge la testa nella sabbia, tra mito e realtà esiste sempre uno scarto che genera equilibrio, un equilibrio che si rompe quando lo scarto che lo crea si riduce a essere comparsa di una realtà e di un mito che cedono il passo alla farsa.
La fola della destra sempre relegata ai margini della scena politica istituzionale che oggi vede l’occasione del riscatto porta con sé l’amara verità di una classe dirigente non all’altezza del compito che si è dato attraverso la distorsione del mandato che le è stato attribuito dagli elettori. Tra il vincere le elezioni e il monopolizzare ogni poltrona disponibile, anche quelle non direttamente riconducibili alla politica, c’è la differenza siderale tra un concetto articolato di democrazia e uno autoritario di potere; tra le competenze al servizio del pubblico spazio e la fedeltà senza merito, se non quello enunciato, alla dipendenza del potente di turno.
Nel passare repentinamente dalla residualità del 4 per cento alla centralità del partito di maggioranza si nasconde non il rischio ma la certezza, in caso di volontà egemonica, di non avere il personale idoneo al ruolo che gli si affida, di non disporre cioè delle conoscenze necessarie allo scopo, per quanto artatamente sbandierate con araldico diffondere.
In questi anni di governo molti sono gli esempi che confermano l’evidenza banale della tesi sopra riportata, ma il ministro Sangiuliano – grazie al destro precorrere di Dante, al visionario veleggiare di Colombo su rotte in divenire, alla scienza nautica di un Galileo nato prematuramente, alla geografia simbolica a geometria variabile se non discutibile, e infine alla consulenza data, negata, ritrattata, scontrinata e chi più ne ha più ne metta – ha vinto con distacco assoluto la maglia rosa del giro dell’inopportunità.
Nella sovraesposizione mediatica votata alla spiegazione pubblica che, in un attimo contro la volontà del proponente, si è trasformata in gogna pubblica totalizzante tanto per i presenti (ministro e direttore) quanto per gli assenti chiamati in causa e impossibilitati a rispondere (moglie del ministro e dottoressa Boccia su tutti), viene a galla quell’intreccio inestricabile tra potere e informazione al servizio del potere che è tratto caratteristico della contemporaneità.
A uscire sconfitta è la politica ridotta a gossip da se stessa per un calcolo repentino da riduzione del danno elaborato dalla destra, ma soprattutto a uscire umiliato è l’elettorato che ha dovuto ingoiare, insieme alle notizie di guerra, agli omicidi di curva e di famiglia, alle proroghe delle proroghe in attesa di bandi di gara sempre rinviati e via dicendo, la pietosa solitudine di un uomo costretto a esporre l’inconfessabile privato piuttosto che riconoscere il proprio fallimentare agire.
Non interessa se Sangiuliano rimarrà fedele alla moglie o seguirà la scia dell’affetto che in questa estate lo ha legato a nostra signora dei grandi eventi, quello che importa è che smetta di essere ministro di un ministero che non gli compete per capacità. Meloni se ne faccia una ragione, di nomi non ce ne sono molti, ma non sarà difficile trovarne uno che sappia storicizzare Galileo e Colombo e ricondurre la geografia all’interno dello sferico codificato. Ogni rimpasto in una coalizione può essere elemento critico, ma ogni ministro non all’altezza per un Paese che non è patria, ma è un po’ più di una singola parte, può essere un colpo mortale.