Il potere è una gran brutta bestia, soprattutto quando invece di essere gestito da una politica forte in grado di programmare e concretizzare, condiziona in maniera pressoché esclusiva la politica stessa. La democrazia perde la sua potenza di governo delle contraddizioni nel momento in cui il mantenimento del potere assurge a sua unica logica di vita. Quando è il potere a fare la politica e non la politica a governare il potere la democrazia finisce con il somigliare a qualsivoglia autocrazia.
In una società globale governata dai falsi miti dell’efficienza e della prestazione, in cui organi economici sovranazionali hanno la forza di imporre decisioni in nome degli interessi di un numero sempre più ristretto di soggetti, la prima vittima rischia di essere la democrazia, intesa come diretta espressione di un volere popolare libero e di una Carta Costituzionale in grado di bilanciare il peso e di regolare la convivenza dei poteri contrapposti che la caratterizzano. Una democrazia è viva se partecipata, non semplicemente durante gli appuntamenti elettorali, una democrazia è compiuta se riesce a resistere alle tipiche scorciatoie decisioniste imposte dallo stato dei fatti. Oggi la crescente disaffezione – qualificata e non, consapevole e disfattista – degli elettori unita a una pretesa di esercitare un potere sempre più assoluto e sempre meno controllabile e discutibile mettono seriamente a rischio i cardini sostanziali e non della democrazia.
La complessità contemporanea, nel suo intrecciarsi di interrelazioni non lineari e mai uguali a se stesse, spaventa al punto che per farla digerire si tende a banalizzarla riducendola alla dualità asfittica del bene contro il male, delle chiacchiere contro i fatti, della responsabilità contro lo sfascismo, dell’autoctono contro lo straniero e via dicendo. Il popolo, lontano dall’essere moltitudine, allontana da sé la politica delegandola al miglior offerente, solitamente il più abile venditore di se stesso nel campo illusorio e distorcente della comunicazione; al miglior offerente, vinte le elezioni, non rimane che sacrificare le promesse elettorali sull’altare dell’autoreferenzialità del potere. Il corto circuito democratico fatto di disinteresse verso il comune dei più e di impotenza manifesta della dialettica politica genera governi che in nome e per conto della funzionalità sistemica rispondono solo a logiche di mero potere. Questa tendenza onnivora avvolge ogni spazio palesandosi senza tempo.
Volando molto più in basso e planando sulle miserie ternane fatte di sputi e rotonde, fioriere e parolacce, minacce e buche tappate possiamo notare come l’ipocrisia generalizzata abbia finito con l’indossare le vesti sempre corte del ridicolo. Dopo aver presentato formalmente la richiesta della revoca della cittadinanza onoraria conferita al mecenate Bandecchi, il gruppo consiliare di Fratelli d’Italia, pronto ad affrontare la conferenza stampa indetta per rendere note le ragioni di tale decisione viene bloccato da una telefonata arrivata da Roma. Fermi tutti. Contrordine. La conferenza stampa non s’ha da fare e le ragioni da esporre non solo dovranno essere sottaciute, ma dovranno essere ribaltate. L’odiato nemico sindaco dovrà divenire amabile alleato, questo in sintesi il lapidario messaggio imposto a Terni e all’Umbria dai palazzi romani. Mentre cioè votano, per mantenere gli equilibri di alleanza, l’autonomia differenziata, da Roma non riconoscono al territorio alcun livello di indipendenza arrivando al punto di ordinare una inversione a U indigeribile per chiunque, non fosse altro per la tutela minima della decenza personale. Ma si sa, la decenza è merce rara e comunque sempre sacrificabile per un bene ritenuto superiore. E quale bene superiore al potere può esistere per i Fratelli d’Italia? Nessuno chiaramente. Così chi è stato minacciato dovrà fare spallucce, chi è stato sputato dovrà farsene una ragione, chi è stato insultato dovrà sorridere, chi si è sentito offeso dovrà smettere di essere permaloso. Ma quale revoca, ma quale conferenza stampa, qui e ora potere e alleanza. Questo lo striscione da stadio calato da Roma sulla testa di Terni. La politica per loro non è più politica, ma potere, l’underdog si è fatta statista e il sovranismo ragione di stato a geometria variabile, quindi cari Cecconi, Masselli, Fabrizi, Proietti Trotti, Pastura da oggi dovrete accarezzare chi vi ha sputato e collaborare con chi vi ha insultato. Vincere e vinceremo a ogni costo con ogni mezzo.
La paura di perdere le Regionali, dopo gli insuccessi di Terni e Perugia, ha spinto gli alti dirigenti nazionali a far ingoiare ai consiglieri comunali il più amaro tra i bocconi. E qui gli strilloni dagli alti ideali e dai bassi fini hanno dovuto fare di necessità virtù. Andando oltre al fiuto della volpe e all’acerbo dell’uva hanno immediatamente trasformato l’uomo nero di ieri in affidabile amico di oggi in grado di garantire un radioso domani.
La spaccatura del gruppo consiliare si è consumata tutta all’interno dell’arena del potere che non conosce dignità, tanto che i papabili candidati alle elezioni regionali hanno risposto presente, mentre chi rimarrà semplice consigliere comunale è confluito nel gruppo misto. Gli ideali tanto sbandierati a tenuta e garanzia del decoro istituzionale messi nello sgabuzzino dell’inopportunità, un nuovo plastico sorriso e un rinnovato vocabolario rispolverati sulla strada di Palazzo Cesaroni. In fondo in fondo Bandecchi sarà sì smodato e irruente, ma è uno di noi, questa la liana con cui dondolarsi gaudenti e fieri nella giungla elettorale. Meglio vincere con Bandecchi che perdere senza, questa l’alta matematica politica, che nulla ha di programmatico, con cui Roma ha commissariato Terni.
Che nel consiglio comunale di Terni vi fossero due destre, al di là della rivendicazione centrista di Alternativa Popolare, era fatto evidente ai più. Che queste due destre, che dall’inizio della consiliatura non hanno fatto altro che detestarsi, fossero in grado di passare sopra a ogni divergenza e ogni offesa per il solo mantenimento del potere un po’ meno scontato, ma si sa Roma comanda, Terni obbedisce.
Dall’altra parte della barricata, nel campo largo che oggi si divide e domani si ricompone, il lavoro costante ha permesso in tempi non sospetti la definizione di una alleanza programmatica (Patto Avanti) risultata vincente a Perugia e che ha avuto la forza di rivendicare il primato dell’Umbria su Roma. È stata l’Umbria cioè a decidere per l’Umbria, è stata l’Umbria a imporre a Roma un percorso e non viceversa. Ci saranno due schieramenti eterogenei che si giocheranno le poltrone di Palazzo Cesaroni, uno figlio di un percorso tortuoso e condiviso, l’altro di una decisione monolitica calata dall’alto, uno con le leve decisionali tra le mani l’altro telecomandato da Roma. Il potere tende a rendere tutti uguali nella sua genuflessa venerazione, ma uno non è mai uguale a uno e anche in Umbria le differenze sono sotto gli occhi di tutti coloro che hanno ancora la forza di voler vedere.