La cella di un carcere
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Se il carcere diventa «discarica»

 

Giorni fa, durante un presidio davanti al carcere di Terni per protestare contro condizioni di lavoro oltre i limiti della sopportabilità, il responsabile regionale del Sappe, uno dei sindacati degli agenti che garantiscono la sorveglianza negli istituti penitenziari, ha dichiarato testualmente in un servizio trasmesso dal Tgr che le carceri di questa regione stanno diventando «la discarica della Toscana perché in continuazione arrivano dei detenuti che vengono trasferiti negli istituti umbri per ordine e sicurezza, che si sono [cioè] resi attori di comportamenti gravi e lesivi dell’amministrazione penitenziaria» (corsivo nostro). Il motto del Sappe è «Res non verba», ossia «fatti, non parole», e questa potrebbe essere invocata come attenuante per una dichiarazione così truculenta, se non fosse che ci sono almeno tre increspature. La prima è che con le parole noi esseri umani costruiamo il mondo, lo immaginiamo, diamo forma a cose che altrimenti continuerebbero a chiamarsi indistintamente cose, appunto, e questo genererebbe incomunicabilità perversa: le parole sono criteri di discernimento. La seconda è che quel sostantivo che neanche tanto indirettamente fa di una categoria di persone dei rifiuti è stato usato dal responsabile del sindacato più rappresentativo della categoria degli agenti di polizia penitenziaria. La terza increspatura è data dal fatto che quel servizio è andato in onda registrato, non è stata la presa in diretta di un sussulto di esasperazione; se l’autore di quella metafora avesse avvertito l’abisso che aveva toccato, avrebbe potuto agevolmente richiedere a cameraman e giornalista che l’avevano raccolta di rifare tutto. Invece no. La dichiarazione è andata in onda regolarmente.

Insomma, abbiamo il rappresentante regionale del sindacato più rappresentativo degli agenti di polizia penitenziaria che conserva nella sua testa l’immagine di persone assimilabili a rifiuti. Il fatto travalica la persona, ed è questo che lo rende di pubblico interesse. Se si è rappresentanti di qualcuno, la parola che esce dalla bocca di colui o colei che rappresenta in una occasione ufficiale è la parola di molti, non più di un singolo. Ma c’è di più: quelle parole non sono state fatte oggetto di critica da parte di nessuno. Sono scorse come acqua di fiume sotto gli occhi di un’opinione pubblica distratta e silente se non, forse, d’accordo. Che si tratti di distrazione, silenzio ignavo o addirittura condivisione, in nessuno di questi casi c’è da stare tranquilli. Se i luoghi che custodiscono persone sono assimilati a discariche vuol dire che si ritiene che esistano persone-rifiuti. E i rifiuti sono l’ultima cosa di cui avere rispetto: vanno semplicemente tolti di mezzo e ammassati da qualche parte. È una questione che è strettamente correlata all’idea dello stare insieme come società che si ha. Né la gravità di ciò che le persone hanno fatto per finire in carcere, né le condizioni spesso invivibili in cui sono costrette a vivere le persone che nel carcere ci lavorano spostano di una virgola il problema. Parliamo di luoghi la cui invivibilità non è dovuta a chi vi è custodito dentro – come fa comodo pensare – ma semmai a chi, da fuori, dovrebbe governarli in maniera che non ci sia nessuno a cui possa venire in mente di assimilarli a discariche.

Le parole oltre a essere criteri di discernimento possono essere anche sintomi. In questo caso segnalano una patologia cui vanno rivolti uno sguardo e una cura per evitare che il virus si propaghi più di quanto ha fatto finora e rischi di farci fare un salto all’indietro di diversi secoli.

Foto dal profilo Flickr di Luca Di Ciaccio

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