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La trappola dell’empowerment

 

Da dizionario, empowerment significa accrescimento di potere, miglioramento, mettere in grado di, rendere potenti, favorire l’acquisizione di potere; un concetto che può essere tradotto, letteralmente, con potenziamento e che nasce negli studi di psicologia di comunità, diffondendosi in molti altri ambiti, tra cui quello delle politiche sociali. Più ampiamente, coincide con «un insieme di azioni e interventi mirati a rafforzare il potere di scelta degli individui e ad aumentarne poteri e responsabilità, migliorandone le competenze e le conoscenze». Wikipedia traduce la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui il termine empowerment «indica un processo sociale multidimensionale attraverso il quale individui e popolazioni acquisiscono una migliore comprensione e controllo sulla propria vita»; un «processo di crescita, sia dell’individuo sia del gruppo, basato sull’incremento dell’autostima, dell’autoefficacia e dell’autodeterminazione per far emergere risorse latenti e portare l’individuo ad appropriarsi consapevolmente del suo potenziale». In realtà, l’empowerment riguarda sia il processo che porta al potenziamento, quindi l’insieme delle condizioni che lo permettono e lo favoriscono (condizioni di empowering), sia il risultato stesso (lo stato empowered); risultato che può riguardare il singolo, l’individuo o la collettività, la comunità.

Tutto condivisibile, quindi. Almeno all’apparenza: è importante infatti approfondire meglio questo concetto perché è uno di quelli che più caratterizzano il cambiamento di approccio e risultati delle politiche sociali degli ultimi decenni, un po’ ovunque. Per un motivo ben preciso: porre l’accento innanzitutto su quali sono le possibilità di un individuo (o di una collettività), le risorse autonome, le opportunità che può cogliere è diverso dal porre l’accento innanzitutto sui suoi bisogni, su cosa non è capace di fare, sull’assistenza che gli è dovuta appunto perché non in grado di. Ed è proprio questo il mutamento di prospettiva che è avvenuto a partire dall’inizio degli anni ottanta del secolo scorso, con il passaggio dal welfare al workfare; quest’ultimo ispirato dalle nuove caratteristiche del capitalismo che si andava affermando in quegli anni.

Il discorso è molto ampio e difficile da trattare in poche righe senza appesantire troppo questo testo. Possiamo dire che dopo il grande sviluppo dei sistemi di welfare avvenuto nell’immediato dopoguerra, a partire dalla metà degli anni settanta si è assistito ad un loro progressivo arretramento (che dura ancora oggi) in tutti i paesi occidentali, grazie al vero e proprio attacco subito su diversi fronti. Principalmente, quello economico-finanziario (non ci sono più le risorse economiche) e quello ideologico-culturale (ognuno deve farsi da sé). Workfare è la contrazione di welfare to work: le politiche sociali dovrebbero più che altro aiutare chi sta peggio ad inserirsi nel mercato del lavoro e a trovarlo, rendendolo occupabile; ed è attraverso il lavoro che gli individui (singoli) possono ottenere l’inclusione sociale e soddisfare i propri bisogni. Una concezione di welfare molto, molto ristretta, che infatti ha tenuto e tiene ancora fuori moltissimi individui e gruppi dall’insieme di coloro che godono di benessere.

Cosa c’entra l’empowerment? C’entra molto, perché rendere empowered, potenti, in grado di è uno degli obiettivi delle nuove politiche sociali così come descritte: non si aiuta direttamente chi è in svantaggio (con i sussidi, con la casa, con i servizi, etc.), ma lo si mette (in teoria e nella migliore delle ipotesi) nelle condizioni di fare da sé, potenziandolo. Poi lo stesso individuo vedrà sul mercato come meglio muoversi, con tutte le distorsioni immaginabili. Non voglio certo sostenere che il welfare state debba rendere passivi e soprattutto dipendenti da un aiuto pubblico i suoi beneficiari; né che gli individui e i gruppi svantaggiati non debbano puntare all’autonomia, all’autodeterminazione, alla libertà di poter scegliere la propria vita, obiettivi che sono alla base di ogni servizio sociale degno di questo nome e che sono elencati e discussi in ogni manuale letto e studiato da un assistente sociale. Bisogna solo intendersi sul significato di mettere in grado di: vuol dire lasciare solo e abbandonare al suo destino chi ha bisogno, giudicandolo magari non meritevole di aiuto e rivestendo di insopportabile retorica empowered le azioni a lui dedicate? Oppure significa aiutarlo, concretamente, in maniera diretta e indiretta, a trovare le risorse in se stesso, nelle relazioni e nei contesti di vita in cui è o non è inserito, seguirlo, capirlo, non giudicarlo per azioni e scelte di vita, trattarlo con gentilezza ed empatia, e così via?

Ed anche, come approccio generale, comprendere che molto, ma molto spesso (sempre?) lo stato di bisogno di chi sta peggio non deriva direttamente da carattere, scelte di vita, indole, insomma da caratteristiche personali, ma dall’esito di dinamiche estremamente più ampie e che passano ben al di sopra di teste e decisioni: contesti familiari, quartieri in cui si è nati, licenziamenti, malattie, e chi più ne ha più ne metta. Il che non vuol dire giustificare comportamenti ed azioni magari inopportune o al di fuori della legalità, ma semplicemente comprendere il contesto in cui ciascuno di noi e ciascuno di coloro che sono in svantaggio è inserito, e quanto questo contesto influenzi le vite di ognuno.

Quindi, bene senz’altro l’empowerment; ma occhio alle strumentalizzazioni, alle retoriche e allo scarico sulle responsabilità individuali di problemi sociali più ampi.

Foto da pxhere.com

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