Da quindici anni il servizio sanitario è caratterizzato da un pesante sottofinanziamento del fondo nazionale e dall’assenza di atti tesi a risolvere alcune criticità del sistema ormai presenti da tempo. Vi è una consapevolezza diffusa che siamo a un vero punto di svolta tra rilancio o declino dell’intervento pubblico come garante della tutela universale del diritto alla salute. Passando al livello regionale, i cinque anni di governo della Giunta uscente si sono caratterizzati per una gestione confusa e velleitaria e per una palese apertura al privato che hanno accentuato la difficoltà dei cittadini nell’accesso ai servizi pubblici e stanno alimentando la rassegnazione dell’opinione pubblica rispetto alla possibilità di recupero del valore della sanità pubblica. Si sono così creati i migliori presupposti per un conteso favorevole alla privatizzazione.
Uno sguardo d’insieme
Il sistema complessivo della spesa per le cure sanitarie in Italia è riassunto in questa tabella.
La spesa per prestazioni sanitarie fornite da soggetti privati (strutture accreditate, spesa diretta dei cittadini, spesa privata del cittadino intermediata, cioè tramite assicurazioni e fondi finanziari) ammonta a 70 miliardi e costituisce il 40 per cento del totale. Per quanto riguarda le fonti di finanziamento, il fondo sanitario nazionale (cioè le risorse pubbliche derivanti dalla fiscalità generale), pari a 133 miliardi nel 2023, ha alimentato la produzione diretta del servizio pubblico nazionale per 106 miliardi di euro; i restanti 27 miliardi sono stati assegnati alle strutture private attraverso l’accreditamento e la decisione successiva delle politiche regionali di stabilire dei contratti di servizio con il privato. La spesa privata diretta dei cittadini è pari a 46 miliardi, e costituisce il 24 per cento delle risorse che la società nazionale destina complessivamente per le cure sanitarie. Di queste risorse, come si può vedere nella tabella seguente, più della metà viene destinata ai servizi ambulatoriali. Segue la spesa per farmaci, per cui i privati spendono quasi 11,5 miliardi l’anno.
Ci sono poi altri dati che inducono a considerazioni generali in termini di equità sociale e di uso razionale delle risorse. Vediamoli brevemente: 1) La spesa prevalente delle famiglie scaglionate per fasce di reddito mostra che la spesa per i servizi dentistici è sostenuta principalmente dagli scaglioni dei nuclei più abbienti, mentre tra le famiglie più fragili prevale la spesa per i farmaci; 2) la rinuncia ai servizi sanitari coinvolge il 10 per cento dello scaglione più povero; 3) Le spese che vengono definite catastrofiche (cioè quelle che impegnano almeno il 40 per cento del reddito disponibile) riguarda il 10 per cento delle famiglie, un dato che peraltro è in continua crescita; 4) Si assiste a una regressività delle detrazione fiscali: per un importo totale di 3,3 miliardi di euro vi è un ritorno in prestazioni sanitarie di 140 milioni per le famiglie più povere contro 1,5 miliardi per quelle più ricche; 5) Per la spesa privata intermediata (assicurazioni e fondi finanziari) il 20 per cento del totale di quanto viene versato dai cittadini non ritorna in servizi a causa dei costi della gestione amministrativa e della quota che va in profitti.
Il privato che avanza
Nella successiva tabella vengono riportati i gruppi della sanità privata in Italia in relazione al fatturato totale e alle prime cinque imprese: il fatturato totale del 2022 ammonta a circa 12 miliardi con 32.587 posti letto. Le prime cinque imprese per fatturato hanno ricavato quasi la metà del totale, cioè 5,13 miliardi con 26.526 posti letto attraverso 209 strutture distribuite in diverse regioni. Come si è visto nelle precedenti tabelle, le strutture private incassano sia dal fondo nazionale – attraverso gli accreditamenti – sia mediante la spesa diretta delle persone, e sono in continua crescita grazie alle acquisizioni dei soggetti privati accreditati più piccoli da parte dei gruppi più grandi. Sono presenti in più regioni e l’acquisizione di attività diverse nei territori consente loro una offerta articolata. Si tratta di un contesto che tende a realizzare uno scenario in cui il monopolio pubblico viene affiancato da un oligopolio di privati accreditati che vanno assumendo una consistenza strutturale e finanziaria, anche di livello internazionale, così forte da poter arrivare a condizionare le scelte di politica sanitaria pubbliche. Se a questo si aggiunge il sottofinanziamento del fondo sanitario pubblico che procede ormai da anni, si capisce che siamo di fronte a un processo di privatizzazione strisciante.
Le storture legate alla privatizzazione
La tendenza alla privatizzazione di fatto appena descritta ha prodotto diversi effetti: aumento della spesa sanitaria a carico del cittadino e di quella pubblica gestita dal privato accreditato; aumento delle disuguaglianze con riduzione delle possibilità di cura; cultura del consumismo sanitario, con interessi privati che la alimentano, contro la cultura del diritto alla salute; svuotamento della prevenzione come investimento a lungo termine sulla salute che ridurrebbe il ricorso alla medicalizzazione e quindi la riduzione delle spese; priorità del profitto legato alla prestazione da tariffare rispetto alla presa in carico del paziente lungo la linea assistenziale ospedale-territorio, in particolare con l’integrazione sociale della comunità locale. Si tratta di una serie di storture che mostrano chiaramente come la logica del profitto privato non si dimostra affatto adatta se applicata a un bene comune come quello della salute.
Il livello regionale
Se quello appena accennato è il contesto generale, ne consegue che a livello regionale il compito della nuova Giunta dovrebbe andare nella direzione di una consapevole strategia di rilancio del sistema pubblico attraverso una articolata pianificazione. Ci sono alcune priorità in questo senso. Per quanto riguarda l’accreditamento delle strutture private, va definita una griglia di requisiti regionali che assicurino la qualità, l’efficacia dei soggetti privati e il loro controllo nel tempo in relazione al profilo dell’eventuale contratto di servizio, sia per le funzioni ospedaliere che per quelle territoriali. Si dovrebbe andare poi verso un recupero di piena funzionalità dei servizi. In questa direzione dovrebbe andare il mandato chiaro e prioritario dei vertici rinnovati delle aziende sanitarie. Occorre parallelamente mantenere alto il confronto politico nazionale sulla necessità di risorse aggiuntive al fondo sanitario nazionale e, nella cornice di un’azione regionale di recupero di efficacia pubblica, c’è la necessità di prevedere anche delle risorse aggiuntive regionali che evitino il taglio delle prestazioni.
I nodi da affrontare
Poi c’è il tema dei temi: quale strategia generale di approccio per il recupero di valore del servizio pubblico dopo venti anni caratterizzati dal taglio di risorse e di servizi ospedalieri e di abbandono dei servizi territoriali? Equità sociale e appropriatezza ed efficacia economica dovrebbero essere i punti cardinali per una innovazione delle linee assistenziali, della organizzazione dei servizi e della loro integrazione, delle relazioni e integrazioni professionali e delle responsabilità: si tratta di puntare a risultati di salute. L’appropriatezza va interpretata come pertinenza tra specifici bisogni di salute e modalità e tipo di prestazioni erogate. Va spezzata poi la contrapposizione tra ospedale e territorio: non esistono servizi territoriali senza una qualificata assistenza ospedaliera; e al tempo stesso gli ospedali sono ingestibili senza una rete territoriale, basti pensare allo stato attuale dei pronto soccorso o alle conseguenze dei ricoveri impropri e dei soggetti con patologie croniche sulle strutture ospedaliere.
La linea assistenziale
Una priorità assoluta è la costruzione di un modello di linea assistenziale regionale, cioè una integrazione ospedale-strutture territoriali, per le patologie croniche, che sono in prevalenza delle pluripatologie: si tratta di una ineludibile domanda di salute che è espressione della struttura demografica della popolazione prodotta dall’innalzamento dell’età media. Il paradigma assistenziale esige un cambio di ottica che passi dall’organo malato alla persona malata, così il focus si sposterebbe sulle relazioni tra il paziente e gli operatori, tra gli stessi operatori, e tra paziente-operatori e comunità locale. Da qui assumerebbe nuova centralità la prevenzione sui fattori di rischio come investimento per allontanare il più possibile il passaggio alla fase della medicalizzazione. E di qui entrerebbe in campo il ruolo dei comuni e dei servizi sociali per tessere una rete relazioni che rompa la solitudine, autentico elemento di aggravamento del bisogno sanitario. Queste esigenze sono ancor più evidenti nelle cosiddette aree interne, ove vi è un evidente, lento processo di abbandono e di rarefazione dei servizi.
Il Piano sulla cronicità dimenticato
A questo proposito va sottolineato come dal 2016 sia stato depositato il Piano regionale sulla cronicità, su input del Piano nazionale, che però da nove anni è depositato dimenticato negli armadi dell’assessorato regionale. Stiamo parlando di un tema che riguarda potenzialmente più del 12 per cento della popolazione regionale. Una gestione territoriale di questo fenomeno assegnerebbe ai distretti una centralità su questioni che pesano sulla vita quotidiana di tante famiglie. Per fare un esempio, si potrebbero programmare e garantire i controlli periodici sottraendoli alle incertezze delle liste d’attesa. In questo quadro si dovrebbe sperimentare quell’innovazione tecnologica tanto attesa in sanità, cioè la raccolta dei dati clinici per renderli fruibili a tutti i soggetti chiamati a gestire la linea assistenziale nell’ottica della presa in carico di cui si parlava sopra. L’insieme dei dati raccolti sulle cronicità costituisce tra l’altro la base epidemiologica su cui verificare i risultati di salute, indispensabili per il processo di pianificazione nella logica risultati-obiettivi, tipica dell’appropriatezza tra domanda-offerta.
L’investimento sul lavoro in sanità
Il processo di recupero del sistema pubblico va incardinato sul riconoscimento del ruolo di tutti gli operatori attraverso il coinvolgimento all’interno dei processi di innovazione delle linee assistenziali. Coinvolgimento motivazionale nella pianificazione delle attività; formazione continua in grado di sostenere tali processi all’interno delle aziende; crescita nelle capacità relazionali per lo sviluppo dell’integrazione professionale in tutti i servizi, sia ospedalieri che territoriali; incentivazione dell’assunzione di una responsabilità individuale all’interno di una responsabilità collettiva tesa a obiettivi di salute. In una cornice siffatta, andrebbe recuperato il concetto della formazione diffusa nel territorio, lasciando ai seminari di carattere regionale che si svolgono presso la scuola di amministrazione pubblica di Villa Umbra la costruzione di un modello concettuale e metodologico di riferimento e di verifica dei risultati del processo formativo che andrebbe diffuso all’interno dei servizi aziendali. In un quadro del genere, nell’ottica di una sinergia produttiva con l’università, andrebbe richiesta la disponibilità per la definizione del profilo professionale dell’Infermiere di comunità, figura cruciale per il lavoro di cerniera nel territorio tra operatori sanitari e contesto sociale e per una valutazione attenta dei processi epidemiologici della cronicità nei contesti locali di vita. Il rilancio del protagonismo pubblico in sanità passa anche dalla contrattazione sindacale, strumento di valorizzazione del lavoro per eccellenza. L’attuale situazione di crisi produce disagio, stanchezza, confusione gestionale, una tendenza a rinchiudersi in un atteggiamento difensivo che a volte sfiora la chiusura corporativa. Certamente non aiuta la diversità giuridica dei rapporti di lavoro. Un esempio di ciò è l’atteggiamento di chiusura dei medici di medicina generale che di fatto impedisce il rilancio dei servizi territoriali – si vedano le case di comunità – e prefigura una separatezza che potrebbe diventare la premessa per la privatizzazione delle attività territoriali.
I provvedimenti del passato da cambiare
Ci sono, infine, atti della giunta Tesei che esigono una particolare attenzione per la politica sanitaria regionale. La Delibera 1399/2023 definisce i posti letto per i privati a carico del servizio regionale e prevede il superamento del limite nazionale, che è di 3,7 posti ogni mille abitanti, innazandolo a 3,9, cosa che porterebbe a 170 posti letto in più. Si tratta di un provvedimento che non tiene conto della diminuzione degli abitanti, che consiglierebbe semmai un abbassamento di quella percentuale. Si potrebbe derogare, al limite, ex post, cioè successivamente a una programmazione regionale, sulla base delle esigenze sanitarie riscontrate, delle disponibilità finanziarie, e della verifica dell’esaurimento delle potenzialità di erogazione delle prestazioni da parte della struttura pubblica. È questa peraltro la questione su cui si incardina la proposta stadio-clinica di Bandecchi.
Sempre in tema di atti della precedente Giunta, occorre riesaminare il protocollo d’intesa tra Regione e Università degli studi di Perugia. L’intrecciarsi di due realtà giuridicamente distinte per ordinamenti e finalità (alta formazione sanitaria per l’ateneo, assistenza sanitaria per la Regione) è stato sempre regolato da forme pattizie flessibili come i protocolli per poter trovare un proficuo equilibrio nelle aree dove le attività vanno a integrarsi nella realtà gestionale. Nel testo attuale vi sono alcuni punti inaccettabili come la previsione dell’approvazione di una legge regionale per la retribuzione del personale universitario – cioè la messa in carico al solo servizio sanitario regionale di ogni eventuale deficit gestionale, ancorchè prodotto da strutture a direzione universitarie – e per il consenso del rettore anche per le apicalità ospedaliere.
Ancora: c’è la legge regionale 21 del 2024 con cui si prevede la fusione di alcuni ospedali di base con altri della rete dell’emergenza senza nessuna esplicitazione legata a una logica di funzionalità di rete territoriale. E per rimanere agli ospedali, per quanto riguarda quello di Terni, giace in Regione l’esito negativo del progetto finanziario privato per la realizzazione della nuova struttura, che rappresenterebbe peraltro una vera e propria privatizzazione. Per finanziare la realizzazione del nuovo ospedale a Terni si possono e si debbono utilizzare solo risorse pubbliche nazionali. Non è possibile sostenere un debito di tale natura sul bilancio aziendale in questo contesto finanziario che proibisce di impegnare in modo diverso quello che è destinato alle cure dei cittadini. Ogni ipotesi di intervento edilizio al di fuori dell’attuale sito di Colle Obito richiederebbe almeno dddici anni per essere realizzato. Pertanto diventano prioritari alcuni interventi che sono nella disponibilità finanziaria dell’azienda ospedaliera per risolvere problemi non più accettabili nell’attuale struttura: climatizzazione completa delle aree di degenza, allargamento del pronto soccorso e adeguamento del parcheggio esterno.