L’ultimo rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) è interessante per più di un motivo, ma l’elemento che lo rende maggiormente apprezzabile è che quel documento consente di uscire dal cicaleccio del giorno per giorno e osservare le cose con una prospettiva storica basata su dati di fatto.
La notizia principale, rimbalzata un po’ su tutti i mezzi di informazione, è che tra le maggiori venti economie del mondo l’italiana è quella che negli ultimi diciassette anni ha visto la maggiore riduzione del potere d’acquisto dei salari: fatto 100 lo stipendio medio del dipendente italiano nel 2008, oggi quella stessa persona percepisce 87. Il lungo intervallo di tempo attraverso il quale è stato monitorato il dato traccia una via d’uscita dall’inutile e fuorviante dichiarazionificio quotidiano.
Ma allora cosa è successo davvero in questi diciassette anni in cui gli stipendi percepiti da chi lavora in Italia si sono prosciugati di oltre il 10 per cento? Chi ha compiuto scelte pubbliche? Chi ha avuto il tempo e il modo per governare e migliorare processi e li ha lasciati come li aveva trovati o li ha addirittura peggiorati? Durante gli anni presi in esame, il partito che è stato più a lungo al governo con un suo esponente è stato il Pd, i cui rappresentanti (Letta, Renzi e Gentiloni) hanno seduto a Palazzo Chigi complessivamente per cinque anni e due mesi. Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, è stato presidente del Consiglio per tre anni e cinque mesi. I tecnici Monti e Draghi hanno governato complessivamente per oltre tre anni. Tra Conte 1 e Conte 2, il M5S ha avuto un suo rappresentante a capo del governo per due anni e otto mesi, e Fratelli d’Italia presiede Palazzo Chigi con Giorgia Meloni ormai da due anni e cinque mesi.
Il ministero dell’Economia è stato in mano a dei tecnici per oltre nove anni – quindi per più della metà di questo intervallo di tempo. Per tre anni e mezzo è stato affidato a Giulio Tremonti, all’epoca esponente di spicco di Forza Italia; Roberto Gualtieri, ora sindaco di Roma del Pd, l’ha avuto in dote per un anno e mezzo, mentre da quasi due anni e mezzo, i cordoni della borsa sono regolati dal leghista Giovanni Giorgetti.
Il ministero del Lavoro è stato per più di cinque anni e mezzo appannaggio del Pd, per oltre cinque anni è stato governato da tecnici (Elsa Fornero, Enrico Giovannini, oggi Maria Elvira Calderone). Maurizio Sacconi (Forza Italia) l’ha coordinato per tre anni e mezzo. E Luigi Di Maio, in quota M5S, a cavallo dei governi Conte 1 e 2 vi ha risieduto per due anni e otto mesi gestendo una ricca delega che prevedeva anche lo Sviluppo economico. Anche da qui sono passati un po’ tutti: esponenti del Pd (cinque anni e due mesi), di Forza Italia (tre anni e mezzo), della Lega, e per quasi due anni gli immancabili tecnici.
Il partito che è stato più a lungo nelle coalizioni che hanno governato in questi diciassette anni di impoverimento dei salari reali è stato il Pd (9 anni e mezzo), seguito da Forza Italia (9 anni), Lega (8 anni e 10 mesi) e Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale (7 anni e quattro mesi).
La dinamica dei salari è caratterizzata anche da ataviche disuguaglianze, di cui l’Umbria è una delle regioni in cui si pagano maggiormente le spese. Qui la retribuzione oraria media lorda è del 3 per cento inferiore rispetto alla già non esaltante media italiana; le donne ricevono mediamente uno stipendio che è quasi il 5 per cento più basso della media, e per lavoratori e lavoratrici straniere il salario è del 6 per cento inferiore alla media regionale.
In questo lungo intervallo, oltre a essersi impoveriti i lavoratori, la produttività in Italia è aumentata del 3 per cento mentre nei restanti paesi ad alto reddito è cresciuta dieci volte di più. Verrebbe da prendere in prestito e parafrasare le parole di Fabrizio De André per rivolgersi a partiti ed esponenti vari che mentre accadeva tutto questo si sono succeduti in posti di potere accapigliandosi sul nulla e lasciando immutata la sostanza delle cose, anzi, peggiorandola: fate del tutto per apparire assolti, invece siete pienamente coinvolti.
È evidente che se il quadro è quello accennato, le responsabilità non sono personali o di semplicemente di partito, bensì di sistema. Ciò non assolve dalle critiche le persone e gli organismi che hanno ricoperto ruoli di potere, ma anzi rende quelle critiche ancora più radicali. L’attardarsi nel giochino del botta e risposta quotidiano mentre la vita di lavoratrici e lavoratori peggiorava; il non aver visto la profondità del fenomeno o non averci saputo mettere le mani nel modo in cui una questione così profonda meriterebbe di essere affrontata: sono queste le responsabilità pressoché inemendabili di un sistema intero.
Ma c’è un’origine che ha dato vita a questo quadro di lassismo trasversale, in cui le stesse definizioni di destra e sinistra diventano scatole vuote, niente più che luoghi geografici? In cui si svela come la scalata al potere sia del tutto fine a se stessa? I fenomeni sono sempre complessi, e non cadremo nel semplificazionismo generalizzato che è la caratteristica precipua del dichiarazionificio di cui sopra, autentica arma di distrazione di massa. Però la rinuncia all’azione di qualsiasi leva pubblica è una delle cause di questo stato di cose. Essa va di pari passo con la fiducia messianica nell’operato dell’impresa privata. Un feticcio la cui inconsistenza e perniciosità sono testimoniate dai dati di lungo periodo offerti dall’Oil.
Una testimonianza vicina geograficamente del tipo di approccio appena descritto è offerta dal programma di governo con cui Donatella Tesei, ex presidente della Regione, si presentò all’elettorato: un capolavoro di totemizzazione dell’impresa privata in una regione in cui peraltro gli investimenti in ricerca delle aziende private, la loro produttività e i salari erogati sono regolarmente nella fascia bassa rispetto alla media nazionale.
In genere chi fa i ragionamenti fin qui abbozzati viene accolto con un’alzata di spalle e l’accusa sempreverde di essere ideologico, laddove l’aggettivo viene utilizzato nell’accezione impropria di sganciato dalla realtà. Se la realtà è quella descritta dai numeri contenuti nel rapporto dell’Oil, ad essere sganciati da essa sono coloro che l’hanno (s)governata basandosi su concezioni teoriche che pur essendo socialmente accettate al punto di essere diventate di moda, si sono mostrate piuttosto prive di fondamento. Occorrerebbe prenderne atto e ripensare un ruolo del pubblico nuovo, efficace, all’altezza dei tempi, dialogante con quanto di meglio emerge dalla società, incentivante e rivolto al futuro. L’alternativa è quella seguita fino a oggi: la totemizzazione del nulla.