La commedia andata in scena nelle ultime due settimane sui conti della sanità regionale è stata un fattore di intossicazione dell’opinione pubblica per diversi ordini di motivi.
Il primo e di più evidente lettura è costituito dal fatto che la questione ha assunto fin da subito le sembianze di un derby tra tifoserie con scambi di accuse e utilizzo di dati più o meno strampalati per lustrare l’immagine del proprio schieramento e gettare melma sull’altra. È successo a tutti i livelli: dagli apicali delle forze politiche all’ultimo dei commenti dei pasdaran sui social. In alcuni casi i due livelli sono andati anche a coincidere in una corsa al ribasso senza fine e forse senza neanche senso del pudore. La tossicità sta nel fatto che lo scambio di epiteti e le cifre utilizzate come arma contundente non hanno consentito di progredire neanche di un millimetro la presa di coscienza generale, ma sono semmai servite a rinsaldare le file dei rispettivi schieramenti in un atteggiamento che mutua senza rendersene conto la postura guerresca che ci sta torcendo i sensi a livello planetario.
Lo scivolamento verso il basso ha riguardato però anche un aspetto meno visibile e al tempo stesso più di sostanza. Perché la commedia messa in scena – che è l’opposto del conflitto consapevole – ha di fatto trasformato la sanità in una questione contabile. Si è contribuito cioè – non sappiamo in maniera quanto consapevole, perché la frenesia da derby sfugge alla razionalità – alla modellazione di un immaginario già fortemente incentivato da decenni di ragionierizzazione di qualunque aspetto della vita umana in base al quale si è bravi se si fanno quadrare i conti, non se si riesce a predisporre servizi in grado di rispondere ai bisogni delle persone. Il punto è che la sanità pubblica, come l’offerta scolastica, non è equiparabile ad aziende produttrici di mortadelle o di tubi in acciaio. O meglio: equiparare l’offerta di servizi sanitari a quella di un bene di consumo qualsiasi può andar bene a chi privilegi il benessere del sistema rispetto a quello delle persone. Chi è convinto invece che ci sono beni immateriali come la cura e l’istruzione che devono essere messi a disposizione di tutti senza condizioni né limitazioni perché da quelli dipende la materialità delle vite di uomini e donne, dovrebbe tenersi alla larga dalla ragionierizzazione del dibattito su questi temi come un pesce dalla terra ferma.
Ma a prevalere, che lo si sia voluto o meno, è stata la ragionierizzazione della sanità. E questo ha costituito un danno che va ben oltre il derby sul quale si era concentrati. Perché nel frattempo, a suon di cifre usate come clave, è passato in secondo piano che secondo l’Istituto superiore di sanità, nel 2022-2023 un terzo degli anziani residenti in questa regione è stato costretto per mancanza di soldi o di servizi accessibili a rinunciare alle cure di cui aveva bisogno. O, ancora, che il Crea (Centro per la ricerca economica applicata in sanità che opera all’interno dell’Università di Tor Vergata) colloca la sanità umbra al di sotto della media nazionale, appena sopra quelle di Sicilia, Molise, Basilicata e Calabria. Le criticità rilevate che fanno scivolare così in basso il livello della sanità regionale sono relative alla mobilità verso altre regioni di chi è alla ricerca di cure; alla quota di prestazioni prioritarie che (non) si riescono a offrire entro i tempi stabiliti; al basso indice di implementazione della rete oncologica; al tasso di ospedalizzazione eccessivamente elevato per le patologie croniche; al fatto che c’è una più bassa percentuale di persone di oltre i 65 anni rispetto alla media nazionale che ha speranza di vivere senza limitazioni funzionali.
Quelle evidenziate sono criticità che attengono alla qualità della vita delle persone in carne e ossa, non ai bilanci. Descrivono una regione rimasta indietro rispetto alla prevenzione e alla territorializzazione dei servizi: secondo l’annuario statistico del Servizio sanitario nazionale predisposto dal ministero della Salute, nelle vicine ed eccellenti Emilia Romagna e Toscana sono state istituite rispettivamente 135 e 35 Case della comunità. Qui siamo all’anno zero. Ancora: nel periodo di governo della destra sono pressoché invariabilmente calati i posti in strutture di assistenza residenziale e semi residenziale per anziani e/o persone con disabilità. Poiché non intendiamo cadere della trappola del derby, non diremo che è colpa della destra, poiché la situazione non è chissà quanto cambiata rispetto al passato. Ma si può concludere che di certo la destra al governo non ha contribuito a invertire nessuna delle tendenze verso il basso che da tempo caratterizzano l’Umbria. E che questa è invece oggi la priorità assoluta.
Occorrerebbe discutere di come invertirle queste tendenze, di come tornare a essere la terra che ha saputo sperimentare e guidare il processo nazionale di chiusura dei manicomi e di integrazione delle persone con disabilità. Baloccarsi sui bilanci della sanità facendo intendere che chi li fa quadrare è più bravo introduce un elemento di tossicità di cui stiamo già ampiamente pagando le spese. I più bravi e le più brave in questo gioco sono coloro che leniscono le ferite, apprestano servizi all’altezza dei tempi, sanno cogliere in quel pezzo di società che sa guardare avanti le energie da valorizzare. I bilanci vengono dopo. Con chi si scandalizza per un’affermazione del genere perché privilegia il sistema rispetto alle persone ed equipara la produzione di insaccati quella di salute sociale occorre confliggere in maniera consapevole, non scendere nell’arena del derby.