Siamo entrati con un certo anticipo nella campagna elettorale per le elezioni del prossimo anno che vedranno il rinnovo di diverse amministrazioni locali, tra cui quella del capoluogo e della stessa regione. Si percepisce dal lavorìo, dalle iniziative, dai dibattiti proposti a iosa da qualche tempo che segnano il risveglio e l’attivismo di molti dormienti, imboscati, miracolati. Lo scenario preelettorale si avvale della propaganda, con un aspetto da non sottovalutare: il sostegno quasi unanime dei media locali alle forze del governo regionale. Cosi anche l’ultimo report economico della Banca Italia sull’Umbria è diventato oggetto di letture accomodanti, e si è arrivati a piegarne le interpretazioni a favore del governo regionale, arrivando a far intendere che l’Umbria, con la nuova guida politica, abbia risolto gli strutturali problemi economici, tornando a pieno titolo tra le regioni del nord. Un elemento quest’ultimo, che rappresenta un’autentica inversione della marcia verso lo slittamento a sud che gli stessi media hanno sostenuto in passato per evidenziare inefficienze e incapacità del governo di centrosinistra.
L’obiettivo preelettorale è insomma quello di modificare il verso della narrazione tentando di dimostrare che il centrodestra oggi al governo è la soluzione ideale per le annose fragilità economiche di un’Umbria piccola, invecchiata e isolata, in ritardo sugli investimenti in ricerca e sviluppo, ancora fortemente condizionata da piccola e piccolissima impresa e da lavorazioni a basso valore aggiunto. Se si sottoponesse però a verifica questo assunto ci si accorgerebbe che la narrazione che si tenta di imporre è molto diversa dai fatti riportati nel report. Nel documento Bankitalia considera buone alcune performance come quelle relative alla produzione industriale, all’edilizia, al turismo, e all’agricoltura; ma vengono al tempo stesso ribadite tutte le fragilità della regione.
Entrando nel merito del report, si potrebbe obiettare che se ai dati enfatizzati della produzione industriale si scorporassero quelli relativi alla sola siderurgia, si otterrebbero cifre assai più modeste rispetto all’andamento reale dell’industria manifatturiera. Inoltre andrebbe tenuto conto che sul fronte della produzione di beni di consumo l’Umbria ha potuto contare sui bassi salari che hanno permesso di gestire meglio il peso dell’inflazione sui costi energetici e delle materie prime. Ancora: in agricoltura, crescono produttività e dimensioni aziendali, ma quello in Umbria rimane un settore vecchio che non attrae giovani, dove è lenta la trasformazione energetica; un settore che non allarga il campo delle produzioni, favorendo quelle mature (farine, mangimi, tabacco, olio, vino) dove sono soprattutto i grandi produttori industriali a trarre vantaggio; in cui non si fa sistema e aumentano le aree incolte e boschive mentre permane lo spopolamento delle aree interne e montane. Venendo all’edilizia, è cresciuta come ovunque in Italia grazie agli interventi pubblici per l’adeguamento energetico e per i fondi della ricostruzione post sisma, e in prospettiva per gli interessanti investimenti che arriveranno dal PNRR e dagli altri fondi europei. Il turismo fa registrare nuoni dati, con presenze mai avute in precedenza, ma si tratta di una tendenza che riguarda tutte le città d’arte e le zone di pregio d’Italia, che stanno beneficiando del rimbalzo post covid; si tratta peraltro di un settore di cui si dovrebbero valutare le ricadute sociali guardando oltre il profitto a breve che sta trasformando le città in altrettante Disneyland, con tutto ciò che ne consegue in termini di erosione del patrimonio storico, artistico, culturale e ambientale.
Le famiglie vedono ridotti reddito e risparmi a causa dell’inflazione, con evidente peggioramento delle condizioni dei nuclei meno abbienti. La finanza pubblica vede aumentata la spesa per il personale sanitario e i costi dell’energia, mentre gli investimenti, pur aumentando, restano tra i più bassi a livello nazionale, e permane la difficoltà sulla capacità di spesa dei fondi europei, criticità quest’ultima che si tenta di addebitare sulle amministrazioni precedenti. Un aspetto, anche questo, che dovrebbe sollevare dubbi: se le cose vanno male è colpa di chi c’era prima; se invece vanno bene, è merito di chi governa oggi.
Riassumendo insomma, la Banca d’Italia – come peraltro l’Inps, l’Istat e autorevoli centri studi – si guarda bene dal ricollocare l’Umbria tra le regioni del nord. La lettura di questi osservatori rimane prudente, dato che nella media nazionale la tenuta della produzione che si riscontra in molte parti d’Italia è a macchia di leopardo, spesso dovuta a rimbalzi dell’economia anche difficili da comprendere appieno. Sicuramente fondi, aiuti, bonus di natura pubblica hanno favorito alcune performance, e la tenuta della produzione è stata spesso a discapito dei salari, dei redditi e dei consumi della maggior parte della popolazione, con l’evidente peggioramento delle condizioni dei ceti più fragili e a rischio; una tendenza confermata anche dal rapporto Caritas sulle povertà. E d’altro canto, non si riscontra un recupero del divario tecnologico e degli investimenti in ricerca e sviluppo e per la transizione energetica, che sarebbero le azioni in grado di fare la differenza.
Per il resto, i giovani continuano ad andarsene, la popolazione s’invecchia e diminuisce, la regione persiste nel farsi piccola, isolata, poco attrattiva, con scarse speranze di invertire la tendenza. Al netto dei rimbalzi, l’Umbria rimane sostanzialmente la stessa, con qualche fattore momentaneamente migliorato e con una politica incapace di affrontare i nodi strutturali e sempre più lontana dai problemi concreti delle persone, che rimangono abbandonate a incerto destino. La navigazione insomma è ben lontana quella delle regioni del centro nord. Con un quadro del genere, certe prese di posizione propagandistiche rischiano di potersi riassumersi drammaticamente con le parole del comandante del Titanic, che rispondendo alle perplessità del mozzo di bordo diceva: «C’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole, andiamo avanti tranquillamente».