Erano anni che una tornata elettorale, per giunta di carattere locale come l’elezione del sindaco o meglio della sindaca di Perugia, non riusciva a suscitare tanto interesse e al contempo a mobilitare tanto entusiasmo. Di certo il merito non può che essere ascritto a Vittoria Ferdinandi che prima ha messo in subbuglio per poi ricompattare allargandolo il suo campo di sostenitori e di conseguenza ha iniziato a far suonare campanelli di allarme nello schieramento avversario che fino ad allora dormiva sonni tranquilli, certo di continuare l’esperienza di potere di Romizi attraverso una sua assessora, di provenienza decisamente meno moderata, e con la convinzione di doversi confrontare con un “grigio” rappresentante di un centrosinistra rassegnato alla sconfitta. Da una “guerra elettorale” di posizione, cioè dal risultato scontato, si è passati a un confronto aperto a trecentosessanta gradi in cui tutto è possibile e in cui soprattutto la rendita (passiva) rischia di essere un boomerang più che la carta vincente. Un confronto tra due donne di estrazione lontana e di cultura opposta. Finalmente, dopo anni di torpore e di assoluta autoreferenzialità di un centrosinistra innamorato della propria immagine di potere riflessa dallo specchio distorcente della protervia; dopo gli anni di un mirabolante e propagandistico governo di un centrodestra figlio esclusivamente dell’autoreferenzialità altrui e di un intervento a macchia di leopardo della magistratura, stiamo assistendo al risveglio della politica e con esso a un rinnovato entusiasmo di commentatori e cittadini. Lo testimoniano tanto il numero crescente di articoli riservati alla competizione elettorale di giugno, quanto e soprattutto la partecipazione di un numero inaspettato di persone comuni. Prendo spunto dall’ultimo articolo di Fabrizio per metterlo in discussione nella sua essenza, nel suo architrave, la poca importanza dei programmi rispetto ad altri fattori tipo, come vi si legge: «Il carisma, la simpatia, l’empatia, la capacità di toccare le corde giuste, i temi sollevati, la storia pregressa e un po’ di casualità».
Detto che la casualità è convitato di pietra dell’agire umano e che l’organizzazione non può che fare i conti con questo dato di fatto faccio, come premessa necessaria, un breve salto nel passato per tornare ai tempi in cui Forza Italia cambiò la comunicazione e con essa la politica del Paese, un cambiamento che ancora oggi detta legge. Quando Berlusconi scese in campo, nelle università italiane i suoi esperti di demoscopica spiegarono ai futuri laureati come riuscirono a ribaltare la logica delle campagne elettorali chiedendo agli italiani cosa volessero sentirsi dire (i famosi dieci punti prioritari) e smettendo una volta per tutte di indirizzarli secondo traiettorie politiche strutturate. La logica del consenso così iniziò a coincidere con l’essenza della politica, coinvolgendo trasversalmente partiti e movimenti in un degradare continuo verso il luogo comune come baricentro di un invincibile populismo. I programmi politici cioè si fecero allettanti esche a immagine e somiglianza dell’elettore a prescindere dalla loro sostenibilità e dalla loro aderenza con il reale, non fu un caso a tal proposito il ricorso tambureggiante alla favola del miracolo italiano.
Da qui riparto per confutare la seconda parte dell’articolo di Fabrizio, e cioè la simbolicità piena di sostanza delle presentazioni delle due candidate, che proprio per quanto ricordato sopra, seppur opposte (da una parte la cura, la rigenerazione e il lavoro che si pretende uso e non solo scambio, dall’altra la continuità con la giunta precedente cercando di farsi investire dalla popolarità presunta del sindaco uscente) appaiono come due facce della stessa medaglia: quella della comunicazione come priorità della politica. Certo, da una parte esperti della cura, manager della (ri)generazione urbana, sindaci diretta espressione della società civile, dall’altra la kermesse di un centro che per rapporti di forza invertiti si trova a fare da garante e da locomotiva a una destra alla ricerca delle poltrone che contano. Le differenze ci sono eccome, e verranno tutte fuori durante gli auspicabili confronti diretti dove le due candidate troveranno ad affrontarsi, confronti figli del terremoto indotto dal berlusconismo (carisma, simpatia, empatia etc), e che proprio per questo rimangono fini a se stessi e confinati all’interno di un contenitore che si pretende contenuto. La vera differenza, il vero valore aggiunto che Vittoria Ferdinandi ha messo in campo, il ritorno alla politica con la P, sta nella decisione di intraprendere una campagna di ascolto nelle 52 frazioni che compongono Perugia per uscire dal tunnel della logica del consenso e rivendicare una volta per tutte la partecipazione come metodo che si fa merito. Nessun decalogo di ciò che la “gente” vuol sentirsi dire raccolto tramite indagini telefoniche a tappeto in cui esprimere preferenze che come per incanto la politica giura di trasformare in realtà, in un divenire che non conosce presente, come ha ben rappresentato Fabrizio nel descrivere le promesse elettorali di Romizi che la Scoccia oggi continua con innocente certezza a perpetrare, ma l’incontro con comunità di corpi che rappresentano problemi e che non credono alle facili soluzioni garantite dalla delega politica e con esse alle promesse di imbonitori che prefigurano i mari laddove ci sono solo i monti e viceversa. Ascoltare tutti prima di parlare a ciascuno, interagire con ciascuno per non lasciare indietro nessuno. Questa la differenza sostanziale che va oltre ogni simbolicità da centro congressi, questa la prassi che riversata all’interno dei programmi, che nessuno legge secondo l’abusata consuetudine che ha portato la metà dell’elettorato a disertare sistematicamente le urne, potrà fare la differenza. Perché tra un programma come volantino promozionale e un programma manifesto di partecipazione molteplice c’è quella distanza siderale che potrà essere in grado di ridare dignità alla politica attraverso l’impegno dei molti che non si limiteranno a (non) leggere programmi, ma pretenderanno di scrivere quei programmi.
La politica che non si limita all’effimero consenso, pur abbisognando di competenze (come dimenticare a tal proposito il parafulmine rappresentato dai professori di Forza Italia), si nutre dell’interesse della collettività, della presenza attiva dei cittadini, dei programmi che ostinati si frappongono alle promesse e della partecipazione che rifiuta la delega. Serve rivitalizzare il territorio con quell’idea di decentramento diffuso in cui il Comune, inteso come istituzione, deve essere parte e non baricentro, deve stimolare e accompagnare senza pensare di poter gestire e controllare, come è stato fatto in altre città italiane dove le realtà associative formalizzate e non e le singolarità diffuse nelle loro forme più disparate sono di fatto divenute le nuove circoscrizioni, dove cioè la periferia si è autorappresentata per poter dialogare e confliggere con il centro. Il metodo/merito Ferdinandi non dovrà essere fatto di professori e manager esperti in e rinomati per, ma di tante soggettività in grado di riversare il proprio sapere in una circolarità orizzontale in continua transizione. Solo così andremo oltre la Vittoria senza accontentarci del fino alla Vittoria. Non me ne vorrà Fabrizio, il molteplice per sua essenza non fa sconti a nessuno.
Caro Simone, il cuore dell’articolo che prendi in esame è questo: invocare i programmi elettorali di fronte a uno scenario in cui le due principali competitrici per la carica di sindaca incarnano una differenza oserei dire “antropologica” per origini dalle quali provengono e direzione nella quale vanno mi pare il sintomo di una ostinazione tutta politicista che non consente di apprezzare – questo è il punto – il cambiamento di scenario che la campagna elettorale per il Comune di Perugia ha portato. Specifico a scanso di equivoci che il difetto di “ostinazione politicista” non è riferito a te, come cercherò di spiegare tra poco.
Dopo anni di palude ci si ritrova con due opzioni alternative di idea di città, questo ho cercato di argomentare. Per apprezzare questo cambiamento, non è necessario scandagliare i programmi, ma osservare quelle che ho definito le due diverse posture complessive, i due differenti umori di fondo che le candidate stanno costruendo intorno a sé.
Il fatto che le elezioni si decidano più sul «carisma, la simpatia, l’empatia, la capacità di toccare le corde giuste, i temi sollevati, la storia pregressa e un po’ di casualità» che sui programmi – come ho scritto nell’articolo – non è una mia preferenza ma una fotografia dell’esistente. E il fatto che i programmi siano diventati dei libri dei sogni in cui poter scrivere di tutto contando sul fatto che non verranno poi vagliati da (quasi) nessun pezzo di opinione pubblica è il motivo per cui ho scritto che il loro valore (dei programmi) emerge più alla fine del mandato di governo, per tirarne le somme, che all’inizio, quando appunto si può promettere il paradiso in terra senza doversi sottoporre a verifica. A questo proposito, i grandi manifesti elettorali con cui il sindaco uscente di Perugia rivendica “il valore dei fatti” sono la riprova che nello scenario attuale – frutto degli ultimi trent’anni di storia, come rilevi tu – conta più “dire” che “fare”, anche – paradossalmente – quando si invoca proprio il presunto fare.
Infine, sul fatto che una ripresa di ascolto autentica sia elemento imprescindibile, cruciale e dirimente per un risveglio della politica, sono completamente d’accordo con te. Sul fatto che non ci sia bisogno di esperti per tracciare a grandi linee il cammino da percorrere sono meno d’accordo. Penso che ci sia bisogno di buone pratiche cui ispirarsi (ce ne sono) e di persone capaci che le abbiano studiate e le sappiano modellare insieme alla comunità sulla misura dei territori, ognuno dei quali ha le sue peculiarità (ma questo è un discorso su cui conto di tornare a breve, qui su Cronache umbre).
Chiudo per spiegare poi qual è la genesi complessiva dell’articolo che tu prendi in considerazione: a me pare che a Perugia stia succedendo qualcosa di pressoché inedito. Questa cosa non emerge in un racconto complessivo e in un atteggiamento di stampa e osservatori che per tutta una serie di ragioni che qui sarebbero lunghe da analizzare ne parlano come se si trattasse di una delle tante campagne elettorali passate. Non è così, questo è il punto. Il mio è un tentativo di uscire dai cliché rassicuranti quanto fuorvianti, e di far emergere, seppure all’interno di un piccolo pezzo di opinione pubblica come è quello che segue Cronache umbre, che c’è un cambiamento in atto, che le posture complessive sono inedite (almeno una), che i programmi vanno sottoposti al vaglio dopo, invece di dimenticarsi di tutto ciò che è stato e andare avanti continuando a fare gli stessi errori.
Siamo qui e ora a cambiare i connotati dell’esistente senza limitarci a fotografarlo; siamo qui e ora in una centrifuga che unisce passioni emozioni saperi e ragioni in cui lo studio e la qualifica si confondono con la buona volontà e l’ignorare (fatto di consapevolezza e buona fede),una centrifuga che tutto comprende e in cui la professionalità si plasma con l’eterogeneo senza arte nè parte senza rivendicare patente di idoneità, la “postura” è tanto ma si limita al fino alla vittoria che è un pò vincere la gara impostata negli ultimi 30 anni dal centrodestra, mettere in discussione la propria postura nell’arena della partecipazione tirando fuori contenuti condivisi rivendicati messi neri su bianco e trasformati in realtà è invece andare oltre la Vittoria rivendicando una politica in grado di fare carta straccia della scia infinita del miracolo italiano.
P.S. sono qui e ora a dire che il tuo articolo mi è piaciuto così come sono qui e ora ad ammettere che sono molto invidioso della postura della vostra futura sindaca…..