In uno dei comuni sotto ai 5mila abitanti dove si vota il prossimo 8 e 9 giugno, San Gemini, è stato presentato nei mesi scorsi un progetto di riattivazione del complesso termale di cui quel centro dispone, da diverso tempo chiuso ed in degrado. Ovviamente la proposta progettuale, avanzata da Terme Italia spa, la società che gestisce attualmente sia le terme di Saturnia che quelle di Chianciano, è entrata di peso nella campagna elettorale, poiché il sindaco uscente, di centrodestra, ha inteso ascrivere a suo merito il fatto che fosse stata formulata e ne ha magnificato i risvolti economici e sociali. La lista contrapposta alla maggioranza uscente l’ha altrettanto entusiasticamente fatta propria, assicurandone la realizzazione anche in caso di proprio successo.
Cosa prevede questo progetto? «Una struttura di quarantamila metri quadrati, parco incluso. Il progetto prevede la creazione di un’oasi del benessere inteso come luogo dove curare la salute, l’aspetto fisico e il benessere psicologico… piscine calde con acque termali immesse a varie temperature e poi saune, sala inalazione, bagno turco, docce emozionali, cascata di ghiaccio, aree relax, anfiteatro verde , bio lago…» Così la descrizione del sindaco uscente. E ancora: «Grazie a strutture coperte, il parco sarà utilizzabile tutto l’anno, ciò significherà de-stagionalizzare i flussi turistici». Infine «percorsi avventura, differenziati per diversa tipologia di utente». Tra questi (come poteva mancare?) un bel ponte tibetano. Chissà teso tra quali strapiombi, in quelle colline così appena accennate. «Le acque utilizzate – prosegue il sindaco uscente – saranno tutte termali e minerali»“.
L’ampio utilizzo di una aggettivazione consolatoria e rassicurante («verde», «bio» ) nasconde però a fatica di cosa effettivamente si tratti: una SPA pensata con tutti gli omologanti criteri della progettazione globalizzata, che rende queste strutture tutte uguali, a qualunque latitudine e longitudine si trovino sul globo terracqueo, con poche varianti. A San Gemini non c’è e non c’è mai stato un lago; crearne uno, anche se «bio», con l’acqua minerale, appare una colossale sciocchezza. Magari a guardarsi intorno se ne sarebbe trovato uno, artificiale, ma ormai del tutto integrato con l’ambiente naturale, dato che esiste dal lontano 1964, nella vicina Fiorenzuola di Acquasparta. Non sarà di acqua minerale, costringerà alla contiguità con dei volgari popolani che pescano cavedani e lucci, ma non c’è da inventarsi nulla. Questo, però, avrebbe costretto il sindaco a parlare con un altro sindaco, con cui condividere il merito dell’investimento e soprattutto a dare all’imprenditore privato il senso che, di quel territorio, non può fare quello che vuole.
Così arriviamo al punto: arriva un’impresa, ben munita finanziariamente, con un progetto standard, che va bene (?) in qualunque territorio si realizzi, senza neanche avere la più lontana idea del territorio in cui si va ad insediare, e, con la promessa di 50 posti di lavoro, si conquista il diritto a edificare. Anzi, diciamoci la verità, si impossessa di un brand. Perché San Gemini è un brand, anche. Che però la Terme Italia né ha costruito né ha pagato. Il brand è del territorio e delle istituzioni pubbliche che lo rappresentano. I cui rappresentanti non intendono però rivendicarne la proprietà sostanziale e anzi parrebbero quasi essere inconsapevoli di detenerne il possesso. Se lo fossero, interloquirebbero da pari a pari con il soggetto privato.
Su cosa le pubbliche istituzioni dovrebbero interloquire con il privato? Prima di tutto sul rispetto della storia di quel sito. È infatti legittimo il dubbio che per costruire piscine, saune, sale inalazione, bagni turchi e compagna cantante si debbano occupare spazi oggi non edificati, magari nel Parco della Fonte. Prima di farlo imprenditori, progettisti e amministratori dovrebbero avere la pazienza di leggere le pubblicazioni che a quel parco ha dedicato il professor Luciano Giacchè, già direttore del Cedrav (Centro documentazione e ricerca antropologica In Valnerina). Potrebbero così scoprire che quel parco non è un parco qualsiasi. Esso è stato progettato dal più importante paesaggista e progettista di ambienti verdi e giardini del ‘900 italiano, Pietro Porcinai. Il committente fu Alberto Violati, un esempio di quel “capitalismo democratico” che a Terni ha avuto purtroppo ben pochi esponenti, imprenditore a cui, a proposito di costruzione del brand, bisognerebbe tributare un meritato riconoscimento. La fonte per la mescita dell’acqua con la prima tensostruttura montata in Italia dalla tedesca Stromeyer, la piantumazione con l’Andromeda sono soluzioni progettuali che andrebbero preservate. Anzi dovrebbero essere da spunto per soluzioni innovative di parco termale, andando oltre l’omologazione globalizzante di questi progetti: sempre più simili architettonicamente agli outlet dell’abbigliamento sparsi per l’Italia.
Il sodalizio Porcinai–Violati offre anche motivo per riflettere sull’altro aspetto essenziale di una corretta interlocuzione pubblico–privato per il rilancio di un’area interna. Tra gli anni ‘60 e ‘70, i due si interrogavano su come trovare un elemento di saldatura tra agricoltura e turismo, pensata allora principalmente in chiave di riqualificazione paesaggistica. L’idea che maturò tra i due fu quella di «integrare il reddito dell’agricoltura con quello derivante dal turismo, concepito non solo come ospitalità alberghiera, ma anche come compartecipazione alle attività agricole attraverso una gestione consortile», come ha spiegato Giacchè. Cosa significa oggi in Umbria e in Italia impostare una politica di rilancio delle aree interne? Per brevità si può solo accennare il tema. La netta separazione tra i luoghi del lavoro, della produzione e della formazione (le città nella maggior parte del loro territorio) e i luoghi del tempo libero, dello svago e della cura di sé (determinati centri storici maggiori e le aree interne, almeno quelle meglio conservate ambientalmente e paesaggisticamente) è un altro artificio destinato a produrre gravi danni. In omaggio a questa concezione, le aree interne continuano ad essere private di servizi e quindi a spopolarsi. È la trappola di Bellitalia, come la definisce Filippo Barbera in Piazze vuote. Ci sono i luoghi da riservare ai turisti, i Borghi piccoli, tipici e belli, dove però lavorare e vivere stabilmente è sempre più difficile e c’è una Bruttitalia dove si lavora, si hanno servizi più o meno funzionanti, e il degrado materiale, infrastrutturale e sociale è più accettabile, anche perché i turisti a Bruttitalia non verranno mai.
Progetti come quello di San Gemini potrebbero essere l’occasione per ribaltare questo schema. Purché si adotti una vista diversa. Perché non inquadrare quel progetto in una visione di area vasta, in cui facciamo entrare anche l’archeologia industriale di Terni, da riscoprire e rilanciare, le filiere agricole ed artigianali corte, la sentieristica dei monti Martani esistente ma abbandonata, i piccoli centri tra Spoleto ed Acquasparta e il loro patrimonio storico architettonico. Altro che ponte tibetano. Ripartire dalle persone nei luoghi e chiedere al privato di coprogettare con le comunità. Ricordando, tutti, che non si tratta di luogo qualunque, se il portale della Abbazia di San Nicolò, fuori porta di San Gemini, è esposto al Metropolitan Museum di New York.
Territori come merce a bassissimo costo ed ad altissima resa….per imprenditori senza originalità e politici che governano incapaci di guardare oltre il proprio naso….
Articolo originale e fuori dagli stereotipi della stampa ormai omologata all’attuale sistema di potere…..