La squadra di volley femminile allenata da Velasco, Bernardi e Barbolini, vincitrice dell’oro olimpico, racchiude in sé una serie di storie che travalicano di gran lunga speculazioni e strumentalizzazioni politiche, perché la vita eccede sempre e comunque ogni norma. Al venticinquesimo punto del terzo set della finale olimpica, nel campo italiano si sono susseguiti abbracci di festa e di commozione che incrociavano traiettorie esistenziali disparate se non contrarie. Iniziando dall’allenatore, naturalizzato italiano, Julio Velasco che ha conosciuto la crudezza della repressione della dittatura militare argentina prima di approdare nell’Italia che lo ha consacrato come allenatore e considerato filosofo di sapienza e misura; passando per Paola Egonu, nata a Cittadella da genitori nigeriani e divenuta cittadina italiana solo nel 2014 grazie al rilascio del passaporto italiano al padre; tornando a Myriam Sylla, nata a Palermo da genitori ivoriani con il passaporto verde di un Paese mai visto né conosciuto fino ai dieci anni, salvata dall’accoglienza di una famiglia “adottiva” palermitana che ha tolto il padre dalla strada offrendogli lavoro e ospitalità; per ripassare a Sarah Fahr, tedesca di Germania con padre skipper e l’isola d’Elba come luogo di crescita, per tornare a Loveth Omoruyi lodigiana da genitori nigeriani sbarcati in Italia dall’Inghilterra; e chiudere con il paradosso rappresentato da Ekaterina Antropova, russa nata in Islanda e cresciuta a San Pietroburgo, italiana per meriti sportivi dal 2023 e sfuggita al tesseramento “putiniano” solo dopo un ricorso al TAS di Losanna. E poi le altre, le italiane dai requisisti idonei e dai tratti somatici consoni, come li definirebbe il generale Vannacci, questa l’idea di integrazione che in tanti oggi si affrettano a definire vincente: Marina Lubian da Moncalieri, Carlotta Cambi da San Miniato, Ilaria Spirito da Albisola, Monica De Gennaro da Piano Sorrentino, Alessia Orro da Narbolia che in campo si è avvolta con la bandiera dei quattro mori e della sua Sardegna, Anna Danesi da Roncadelle, il paese più titolato del mondo, per finire con Gaia Giovannini da San Giovanni in Persiceto.
Una squadra senza confini amalgamata dal sudore in palestra e dalla tenacia in campo, che ha saputo lavorare sui propri limiti (pochi) superandoli ed è riuscita a mettere a valore i propri punti di forza (tanti) rendendoli somma non algebrica dal totale vincente. Una squadra che dopo anni di alti e bassi vede coronato il sogno sempre inseguito e mai raggiunto, quell’oro nella giornata finale delle Olimpiadi di Parigi che le ha elette senza distinzione di pelle, censo e cittadinanza a regine per un giorno di un Paese da sempre spaccato e oggi sempre più affannato nel conciliare la “fluida mobilità” contemporanea con la rigida demarcazione dei propri tratti, del proprio genere e dei propri confini.
Come non ricordare i mille proclami di difesa armata delle coste patriottiche, con tiri incrociati di volontari e non sui rottami carichi di umanità, che rispondevano alimentandoli ai messaggi di paura aggressiva trasformatisi sistematicamente in voti, diventati nel tempo base elettorale di troppi partiti? Come non rammentare, tanto per non lasciare indietro nessuno, la linea della fermezza del ministro dell’Interno del governo Gentiloni che in nome di quella paura aggressiva serpeggiante tra l’elettorato trasversale alzò le stesse barricate contro quell’erranza senza alternativa utilizzando strumenti simili e vocabolario leggermente differente? Come?
Quei rottami in cerca di speranza pronti a sfidare la morte nelle acque agitate e presidiate del Mediterraneo, così come le rotte terrene piantonate con altrettanta militarizzazione e brutalità da un insieme di fili spinati, lager chiamati centri temporanei, muri e manganelli roteanti, sono lì a metterci di fronte a uno specchio, quello dell’ipocrisia sistemica, che rimanda l’immagine di una società che vede l’integrazione come coazione di una cultura sull’altra e non come l’incontro tra diversi mondi con la stessa dignità e lo stesso diritto al benessere e alla felicità.
Myriam Sylla, che di Vannacci e dei suoi cinquecentomila voti se ne fotte con femminile signorilità, orgogliosa come è di quella medaglia appesa al collo, ci ricorda come su quei barconi e su quelle rotte militarizzate potevano esserci i suoi genitori, ci rammenta che il diritto alla vita è diritto universale che non può essere riservato ai vincenti, lo spirito olimpico, checché se ne dica a Roncadelle, è spirito di partecipazione che rifiuta la contabilità spicciola del medagliere diviso per nazioni. Il trionfo di questa squadra che è un trionfo sportivo, porta con sé un carico di simbolicità che se è ingiusto triturarlo nel tritacarne della politica che tutto tende a fagocitare e poco o nulla riesce a digerire, è delittuoso ignorare. Non si può non riconoscere l’alto valore della foto di gruppo sul parquet parigino, non si può ignorare come quello scatto cristallizzi le derive divenute con difficoltà approdi, non si può non parlare delle contraddizioni che spalancano porte per meriti sportivi e le chiudono in faccia ai diritti umani. Perché se la strumentalizzazione al servizio della demagogia ha artigli retrattili sempre pronti a graffiare, la paura del graffio che conduce al silenzio è la resa senza condizioni di una società civile, che per quanto sfilacciata, rimane l’unica speranza di apertura di un mondo che tende sempre più a chiudersi.
Il rosa che ha sopraffatto il nero della pelle di Paola Egonu e il bianco che ha trasformato un pallone antirazzista e multiculturale in pallone sovranista e identitario sul murale di fronte alla sede del Coni a Roma potrebbe essere anche opera di un singolo incapace di intendere e di volere, ma più verosimilmente è testimonianza sgraziata di un clima che, presente nella società e al tempo stesso alimentato dalla politica nella società, in una centrifuga che cancella la responsabilità del razzismo senza disconoscere il merito del “fronteggiare l’invasione”, sordido e strisciante permea troppi pensieri e colonizza troppi corpi.
Facile omaggiare i vincenti nel momento della vittoria, più difficile ammettere, soprattutto con se stessi, come la tutela dei perdenti sia l’unica pratica spendibile per restare umani e l’umanità, anche se risuona strano sostenerlo oggi in un mondo dilaniato dalle ragioni delle vendette incrociate che alimentano guerre infinite, è l’ultima ancora di salvezza rimasta in una deriva che tutti coinvolge e nessuno risparmia. Sembrerà paradossale, ma solo l’umanità può salvarci dal naufragio dell’umanità.