Un mometo dello spettacolo "Ricordi" dell'associazione Aglaia di Spoleto. Foto dalla pagina facebook dell'associazione Aglaia
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Il dolore, la cura, il teatro

 

Domenica 29 settembre presso il Teatro Giancarlo Menotti di Spoleto è andato in scena “Ricordi”, il nuovo spettacolo di Aglaia Spoleto Associazione «nata nel 1991 – come si legge nel sito – grazie a un piccolo gruppo di medici, infermieri e comuni cittadini sensibili al tema della sofferenza delle persone malate nella loro ultima fase di vita, che decidono di organizzarsi in una associazione di volontariato con lo scopo di ricreare la solidarietà umana e sociale in un ambiente spesso disattento alla condizione del malato inguaribile e di sostenere l’attività degli operatori, perfezionandone le conoscenze, formandone di nuovi e diffondendo intorno a loro una rete di interesse e di partecipazione».

Lo spettacolo ha rappresentato l’ultima parte di un articolato progetto “La cura di chi ha cura: territori museo, museo e territori. Arte, memoria, bellezza” vincitore del bando regionale “Musei e Welfare Culturale” della Regione Umbria. Durante il corso dell’anno a tal proposito sono state organizzate visite e attività nei musei e luoghi della cultura e della tradizione storico, artistica e paesaggistica particolarmente significativi della nostra regione e molti laboratori teatrali e artistici.

Personalmente, avendo entrambi i genitori impegnati sin dall’inizio nel volontariato, ho potuto toccare con mano quanto un associazionismo vivo e impegnato possa condizionare favorevolmente l’intero tessuto sociale, riuscendo a essere di sprone nei confronti delle istituzioni e punto di riferimento costante per la cittadinanza. Un argomento quello della cura delle persone con malattia terminale, quindi non guaribili, che per tanti anni ha rappresentato un tabù soprattutto per la “rinuncia” medica a combattere il male e la decisione umana e terapeutica di contrastare il passaggio dal dolore allo strazio. Una sorta di resa per chi, non cedendo alla fatalità della morte, cerca comunque una soluzione al male, una presa d’atto inevitabile per chi, accertato lo stato terminale, si preoccupa di dare dignità alla sofferenza che corrode prima di uccidere. Di mezzo ovviamente l’uso di medicinali (oppioidi in particolare) rientranti nella categoria delle sostanze stupefacenti, un tabù nel tabù tutto giocato all’interno della categoria dell’etica pubblica e soggettiva. La morte è atto brutale senza alternativa, mentre il dolore, che accompagna ineluttabilmente ogni morte, può essere trattato sia in termini clinici che umani. Detto questo, e sottolineando l’importanza del volontariato – dell’Aglaia nello specifico – non è un caso se Spoleto, tra le prime città in Umbria e non solo, può godere della presenza di un Hospice, al tempo stesso posto di cura al pari dell’ospedale e luogo di familiarità come ogni casa. Di un presidio sanitario dove l’inesorabile, con il suo strascico di angoscia, viene trattato con sapienza farmacologica e amorevole partecipazione, dove cioè alla morte si dà del tu a testa alta, perché la morte è quotidianità a cui restituire dignità, e non male da poter combattere.

Ma torniamo allo spettacolo con attori, privi di parte ma non di arte, pescati nel mare associativo e non, professionale e volontario, andato in scena di fronte a un teatro gremito il cui biglietto d’ingresso era rigorosamente a offerta. Ci torno provando a dare forma scritta alle sensazioni a caldo suscitate dal mio assistere dalla platea, partendo dal parallelo con lo spettacolo messo in scena lo scorso anno che ho visto invece da un palco del Caio Melisso.

Dalle stazioni del treno delle scoperte alle tappe del cammino del viandante, dal sistema mondo alla Valle del Nera, dal salto in avanti più spericolato del futurismo alle radici più solide dei ricordi che si fanno memoria. È passato un anno, è cambiato il teatro, ma la sostanza è rimasta la stessa, anzi la scelta di parlare della propria terra e della propria gente attraverso una ricerca storica meticolosa che si è trasferita nel linguaggio scritto, ricercato appunto e mai banale, ha ulteriormente alzato l’asticella della difficoltà per tutte e tutti: regista, sceneggiatrice, interpreti, e persone che hanno assistito allo spettacolo. E lo ha fatto cogliendo nel segno. La cura tipica di chi fa della cura professione che va al di là della professione e volontà che supera il volontariato ha offerto allo spettatore la possibilità di interrogarsi a fondo divertendosi assai. Se la cassetta degli attrezzi è il mezzo per interpretare, cambiandolo, il mondo, lo zaino è il bagaglio per eccellenza dei ricordi del bimbo che si fa adulto. Uno zaino pieno di ricordi che non si limitano all’andare a con il pensiero, ma fanno dell’andare a una traccia di vita, ricordi cioè con la pretesa di divenire memoria. E così l’araldica spensieratezza dei bimbi che rovistando nel loro zaino introducono il racconto della memoria che sarà (messa in scena) crea una fanciullesca curiosità, che presto lascia il posto all’attenzione che si deve a un senso profondo nascosto nelle parole che non ci si può limitare a percepire.

I camminatori nei sentieri dell’umana meraviglia, richiamano attraverso il filo della vita: dolore e rinascita. L’eco della Sibilla, dall’antro vaticina il futuro, guardiana di gole e montagne che la ospitano e che da lei finiscono con il prendere il nome; la disfida di campanile e di bastone che vede, grazie al santo raccomandarsi, il ribaltamento delle forze in campo; il bruco che vola alto facendosi beffa con i suoi fidi compari della presunzione di abilità; la frittata co u tartufo che che ne possono sape’ i francesi; la mummia che dell’estetica non fa filosofia teoretica, ma chirurgia estetica e apparenza social; i proverbi del circondario che sono tramando nobile e popolano; i discorsi dei ciarlatani terapeuti-girovaghi e via dicendo.

Chi è andato in scena, affrontando l’ardua prova del recitare in pubblico, sa bene che il dolore, che nulla ha di umano e molto di terreno, va affrontato, curato, mitigato anche e soprattutto quando non è guaribile, perché il dolore è malattia in sé. Forse è proprio questa quotidiana frequentazione che hanno con il dolore che è si privato e lancinante, ma si combatte per sul serio solo quando riesce a essere (in parte) condiviso, è questa sensibilità altra con cui affrontano il dolore altrui, che finisce con l’essere dolore loro, che permette ai nostri attor* “improvvisat*” di trasformarsi ogni anno in artigiane e artigiani sublimi del palcoscenico (i vuoti di memoria sono componente preziosa di questa sublime artigianalità) e di trarre dall’arte quella capacità terapeutica che eccede ogni medicina senza avere le indesiderate controindicazioni contenute nel temuto bugiardino.

Continuate ad avere cura di voi come fatto nei due teatri spoletini in questi ultimi due anni, che Spoleto, e non solo, abbisogna, come l’assetato abbisogna dell’acqua, della vostra sensibilità volontaria e professionale in grado di essere cura oltre la cura. Complimenti al teatrante, nel senso più compiuto del termine, che risiede in ciascuno di voi e grazie per quanto fate quotidianamente per chi si trova, suo malgrado, a dover affrontare la più ardua delle prove terrene.

Foto dalla pagina facebook di Aglaia

2 commenti su “Il dolore, la cura, il teatro

  1. Questo articolo, scritto con maestria, mi ha commosso perché ha centrato in pieno lo scopo della cura che accompagna le persone nel fine vita! Solo una persona consapevole poteva scriverlo con così tanta conoscenza e partecipazione. Grazie!

  2. Non si poteva esaminare e valutare meglio di così.
    Una prova di maturità , una raffinatezza del filo narrativo che ha connotato la crescita e la bravura
    Degli i interpreti magistralmente diretti da Lorella Natalizi che e’ sempre capace di coniugare bravura
    E sensibilità tali da trattare il nostro territorio come una comunità che si deve amare e riconoscere.
    E; se posso, un sincero apprezzamento per Simone Gobbi Sabini

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