Con Donatella Tesei il centrodestra aveva raggiunto in Umbria nel 2019 il suo massimo storico dei voti raccolti in un passaggio elettorale nell’ultimo quarto di secolo: 255.158. Con la stessa Tesei, appena cinque anni dopo, il centrodestra tocca il suo minimo storico dal 2000 in qua, se si escludono le Politiche del 2013 e le Europee del 2014: 164.727 consensi. Neanche negli anni bui delle Regionali con candidati destinati a sicura sconfitta la coalizione oggi trainata da Fratelli d’Italia aveva fatto peggio: nel 2005 Pietro Laffranco riuscì a racimolare 169.176 consensi; cinque anni più tardi Fiammetta Modena ne prese 169.568. Ma stavamo in un’altra era geologica, politicamente parlando. E per il biennio 2013-2014, quando il centrodestra finì anche sotto la soglia dei 120 mila consensi, occorre ricordare che si era in concomitanza con l’esplosione del fenomeno del M5S, che tolse voti a destra e a manca. Oggi è tutto diverso. Il centrodestra si presentava come la forza che era riuscita a governare la Regione per la prima volta dopo 49 anni dall’istituzione dell’ente, e il M5S si trova al suo minimo storico.
Se questa è la portata del tracollo, la responsabilità non può essere della sola ex presidente. Si tratta di una evidenza che appare solare se si allarga lo sguardo: dal 2014 in avanti il centrodestra ha vinto le Comunali a Perugia, Terni, Foligno, Spoleto, Orvieto, Marsciano e Bastia Umbra, oltre alle Regionali del 2019. Oggi la coalizione governa solo Foligno e Orvieto, peraltro avendole riconquistate per un soffio ricandidando persone che avevano compiuto il primo mandato e hanno perso per strada centinaia di consensi.
La destra-centro, come andrebbe più correttamente definita la coalizione che ha governato l’Umbria negli ultimi cinque anni, si è dimostrata insomma inadeguata alla prova dei fatti, o almeno così l’hanno giudicata gli elettori. L’inversione di tendenza inaugurata da Andrea Romizi a Perugia nel 2014 e proseguita poi negli altri centri per arrivare fino a Palazzo Donini avrebbe potuto costituire finalmente l’occasione per dimostrare le proprie capacità. Invece ha palesato limiti amministrativi, di personale politico e di visione generale. E si è rapidamente conclusa.
L’inadeguatezza del centrodestra
La stortura primigenia è da ricercare nel fatto che la coalizione che è arrivata al potere aveva covato per decenni una sindrome da esclusione che ha alimentato una fame di rivalsa esplosa nell’occupazione di pressoché qualsiasi casella libera. Beninteso: è del tutto legittimo, addirittura doveroso, che una parte politica assegni incarichi a persone di fiducia giudicate in grado di seguire le linee programmatiche individuate. Ma non si sfugge all’impressione che ciò sia stato compiuto spesso con un atteggiamento volto in parte a punire quelli di prima, e in parte a soddisfare appetiti ancestrali. Pochi lo ricorderanno, ma a Terni uno dei primi atti della giunta Latini fu quello di privare alcune associazioni storiche cittadine delle loro sedi ospitate in locali del Comune, che sarebbero poi state assegnate mediante bandi in base a un presunto principio di neutralità che era invece il paravento dietro il quale cacciare realtà giudicate colluse col sistema dei rossi. Della coalizione che era arrivata alla guida dei principali comuni e della Regione è parte cruciale una formazione politica che affonda le radici in un passato extra-costituzionale, il cui personale per decenni, più che misurarsi nell’azione di governo e/o di opposizione, ha speso buona parte delle sue risorse a tenere viva la fiamma del passato. Se Fratelli d’Italia è portatore principale di un sentimento del genere, è l’intera coalizione ad aver mostrato esempi di carrierismo al limite dell’imbarazzante: come spiegare altrimenti il fatto che ben sei dei dodici consiglieri comunali appena eletti a Perugia abbiano deciso, a due mesi dall’insediamento a Palazzo dei Priori, di candidarsi immediatamente per il Consiglio regionale?
Ai limiti costituiti da un personale politico non abituato a ruoli di governo e al tempo stesso animato da volontà di rivalsa si è aggiunta una visione rigidamente dogmatica e inadeguata dell’Umbria e della società più in generale. L’impianto programmatico della coalizione uscita sconfitta dalle Regionali è impregnato di una visione messianica dell’impresa privata. Ancora nel passaggio a “Porta a Porta” in piena campagna elettorale, la presidente Tesei, imbeccata dal conduttore, rivelava al pubblico che essendo l’impresa privata creatrice di ricchezza, era stata in passato e avrebbe continuato a essere in futuro attrattrice di gran parte delle attenzioni del suo esecutivo. Il fatto è che questa convinzione, che già di per sé pare uscita da un Bignami dell’economia, non regge alla prova dei fatti in questa regione. Qui l’impresa è mediamente arretrata rispetto al resto del paese, investe assai poco in ricerca e paga salari più bassi. In un quadro del genere, l’abdicazione dogmatica al ruolo del pubblico o la sua riduzione ad ancella del privato in Umbria risulta controproducente, anzi: ai limiti del caricaturale. Se ne sono visti i risultati in campo sanitario, quello che forse ha pesato di più nella bocciatura della Giunta Tesei da parte dell’elettorato. Si predicava il maggiore coinvolgimento dei privati in un settore che senza una mano pubblica che punti a garantire l’universalità e la qualità della cura diventa solo produttore di disservizi e disuguaglianze. È finita con il sorgere di comitati di protesta ovunque, di liste elettorali a tema e con un assessore al ramo scomparso o forse addirittura invitato a eclissarsi per tutta la campagna elettorale.
I rischi del centrosinistra
La descrizione sommaria degli errori di postura e di lettura del centrodestra sconfitto può servire al centrosinistra per cercare di allontanarsi quanto più possibile dal rischio della loro emulazione. Se la questione della sanità ha assunto un ruolo centrale nell’esito elettorale, non ci si deve limitare a puntare fin da subito su qualità, universalità, puntualità e capillarità delle cure; questo è una sorta di pre-requisito. Occorre piuttosto comprendere che la metà della metà della popolazione che ha votato per il centrosinistra è come se l’avesse fatto cercando un riparo, che è di tipo sanitario, certo. Ma è anche di tipo esistenziale: la ricerca di una protezione contro precariato, incertezze, lavoro povero che non consente di spezzare la catena delle povertà, emigrazione forzata. È una richiesta che un pezzo di elettorato avanza in maniera passiva, poiché in gran parte non sa ancora come organizzarsi per cercare di fornire risposte ai propri bisogni. E in questo senso è gravida di rischi per almeno due motivi: 1) si tratta di un voto che non essendo partecipato è assai volatile; non c’è insomma un blocco sociale definito a spingere il centrosinistra, c’è piuttosto una generalizzata e frammentata richiesta di aiuto che qui si è rivolta a Proietti, dall’altra parte dell’Atlantico si è rivolta a Trump e al prossimo giro può cercare altri interlocutori, se non soddisfatta, o andare a ingrossare la massa astensionista. 2) Ciò appesantisce, se possibile, la parte politica cui è stata demandata la costruzione della protezione, perché essa è isolata, di fatto.
È un labirinto da cui si può uscire solo tentando di alzare il livello, come avemmo modo di scrivere già in occasione del successo elettorale del centrosinistra alle Comunali di Perugia. Alzare il livello significa in primo luogo aborrire il carrierismo. E successivamente cercare nell’intelligenza collettiva al di fuori del Palazzo le risorse per fare fronte in maniera inedita a questioni inedite. Così si potrebbero tentare di raggiungere due obiettivi contemporaneamente: uscire dall’isolamento in cui versano le formazioni politiche tradizionali, e trovare risorse sociali – disperse e frammentate ma operanti là, fuori dai palazzi – in grado di affrontare temi di portata inedita, globale e locale al tempo stesso. Se le cronache ci informano che un minore su cinque vive in condizioni di povertà e che ogni anno che trascorre diventa quello più caldo da quando si sono cominciate a raccogliere statisticamente le temperature, vuol dire che ci sono una questione sociale e una climatica di portata enorme, nei confronti delle quali però si può intervenire anche su piccola scala. Uscire dai palazzi, valorizzare le risorse sociali e intellettuali che si misurano da tempo con questo tipo di questioni, vorrebbe dire contribuire alla deframmentazione del blocco che oggi non c’è. Pensare soluzioni che oggi non esistono ancora, poiché quelle che esistono stanno mostrando tutta a loro inefficacia, sarebbe una iniziale dimostrazione di essere all’altezza della sfida, e potrebbe contribuire a far tornare l’Umbria ai livelli in cui quando, a dispetto delle modeste dimensioni, era una regione riconosciuta per la vivacità del suo corpo sociale e per la portata epocale di alcune elaborazioni: da qui si è guidata la lotta per abbattere le mura dei manicomi, qui è stata elaborata la medicina preventiva nei luoghi di lavoro, qui si sono avute sperimentazioni di mobilità alternativa mai viste prima. È successo grazie al pubblico, e prima di entrare nel letargo conformista che dura da decenni. Per tornare lì, occorre uscire dai palazzi. Reiteriamo l’invito a farlo perché, lo confessiamo, avvertiamo il rischio di un ripiegamento dopo quella che viene salutata da più parti come una “riconquista” che rischia di essere tanto appagante quanto funesta se verrà archiviata come una meta raggiunta invece di essere utilizzata come un mezzo.
Articolo, molto interessante e stimolante. Ragionamenti che devono far riflettere chi fa politica e chi agisce nella società civile. La Sanità territoriale e le hub di eccellenza sono la base di qualsiasi modello produttivo. Ma l’articolo mi pare che chiami anche la necessità di una maggiore conoscenza dell’impresa in Umbria per dimensioni e capacità di progettazione cui potrebbe contribuire anche la mano pubblica.
Ottimo continuiamo di questa strada