Il 28 marzo 2015 a Perugia veniva inaugurato il supermercato Emi nella nuova Monteluce ancora deserta. La rivista specializzata Gdoweek in un articolo di qualche giorno prima aveva sottolineato la particolarità riferendo che quella sarebbe stata «la prima attività commerciale presente nel rinnovato spazio». Il 23 novembre dell’anno successivo lo stesso gruppo apriva un nuovo supermercato a Gubbio, la medesima rivista, informò del fatto che all’interno ci sarebbero stati «un reparto ortofrutta con arrivi quotidiani, un ampio banco pescheria, la macelleria e la gastronomia con le migliori proposte del territorio e nazionali a prezzi convenienti», tutte particolarità ovvie per un esercizio del genere, che la messa nero su bianco è come se tentasse di sottrarre all’anonimato cui sarebbero state normalmente condannate. Appena tre giorni dopo, il 26 novembre, a Gualdo Tadino veniva inaugurato un supermercato Coop. Le cronache del tempo riferiscono che il sindaco della cittadina, durante l’inaugurazione, ringraziò la centrale della grande distribuzione per aver «mantenuto la promessa di investire nel territorio recuperando un’area dismessa» (corsivo nostro, ndr). Al primo cittadino di Gualdo Tadino, avrebbe fatto eco un paio d’anni più tardi il collega di Città di Castello, che salutò l’apertura di un supermercato del gruppo L’Abbondanza nella frazione di Trestina così: «Un plauso va in primo luogo ai vertici del gruppo L’Abbondanza per aver ulteriormente potenziato la presenza del marchio anche nella zona sud del comune». Anche riguardo al sindaco che ha governato la città di Perugia dal 2014 al 2024 il web custodisce notizie di tagli di nastri per inaugurazioni di supermercati. Ma non risulta che egli si sia abbandonato alle alte lodi dei suoi colleghi dell’Altotevere e della fascia appenninica in occasioni analoghe.
Nonostante la discrezione e l’aplomb che vanno riconosciuti ad Andrea Romizi, durante il suo governo la città di Perugia ha visto guidare l’avanzata dei supermercati. Dal 2016 al 2022 le superfici occupate dalla grande distribuzione nel capoluogo di regione sono aumentate di poco meno di un terzo, passando da circa 43 mila a quasi 59 mila metri quadrati. Al 31 dicembre 2015 i supermercati a Perugia erano 47. Quel numero era lievitato a 66 alla fine del 2022, secondo quanto riportano i dati più recenti messi a disposizione dall’Osservatorio nazionale del commercio del ministero delle Imprese. Nella sola Perugia, insomma, l’incremento di superficie dedicata alla grande distribuzione in quel periodo è stato equiparabile a 25 campi da tennis. A cui vanno aggiunti gli oltre 33 mila mila metri quadrati dedicati alle “grandi superfici specializzate”, cioè spazi monotematici di oltre mille metri quadrati dedicati a elettronica o arredamento, ferramenta o articoli sportivi e così via.
L’aumento registrato a Perugia non ha eguali. Ma la grande distribuzione si è allargata ovunque in Umbria. Nello stesso periodo 2016-2022 ci sono state 84 aperture di supermercati e 12 di “grandi superfici specializzate”, La nuova superficie occupata dalle due tipologie di esercizi commerciali è di 12 ettari, che sommata alle strutture che già c’erano arriva a un totale di 41 ettari. Secondo i dati di Federdistribuzione al 31 dicembre 2023 in Umbria c’erano 727 strutture commerciali con una superficie di oltre 400 metri quadrati. A tutto ciò va aggiunto che gli ipermercati – cioè strutture di oltre 2.500 metri quadrati – sono passati nello stesso periodo da 8 a 12. Il tutto è accaduto mentre la popolazione residente calava di oltre 30 mila unità. Uno dei dati contenuti in un report dell’Ente bilaterale del terziario e del turismo in Umbria, segnalava che già nel 2018 l’Umbria era la terza regione nel rapporto tra superficie dedicata alla grande distribuzione e abitanti: all’epoca si era a 588 metri quadrati ogni mille abitanti, oggi i metri quadrati sono diventati 640 ogni mille abitanti.
Se si connettono i dati con le lodi cantate dai sindaci durante le inaugurazioni di semplici negozi, e se a questo si unisce ciò che passa davanti ai nostri occhi camminando a piedi o in auto nei posti in cui abitiamo, non è esagerato concludere che siamo davanti a un vero e proprio modello di sviluppo delle città basato sulle grandi superfici commerciali. Il punto è che non si tratta di uno sviluppo che risponde a una qualche programmazione, ma che è piuttosto il prodotto di una grande concentrazione di capitali e di liquidità da un lato (quello dei grandi marchi) e di un dimagrimento dei bilanci delle istituzioni pubbliche dovuto anche all’affermarsi acritico del meno tasse per tutti, che contribuisce al dimagrimento e alla ridotta possibilità di intervento da parte delle istituzioni. Esemplare è in questo senso il ringraziamento del sindaco di Gualdo Tadino al player privato che ha semplicemente aperto un negozio. Perché lì si è riqualificata un’area dismessa, cioè si è fatta un’operazione che in molti casi l’ente pubblico ha perfino perso l’abitudine a immaginare. La conseguenza di tutto questo è che le città vengono letteralmente disegnate a loro immagine da questi grandi marchi con milioni di fatturato e con una liquidità a disposizione che necessita – come l’abc dell’economia di mercato insegna – di essere moltiplicata attraverso nuovi investimenti.
Nel momento in cui un gruppo del tipo di quelli che abbiamo descritto individua un’area per un investimento e chiede un incontro al sindaco/a o a chi per lui/lei, si dà inizio a un rapporto del tutto impari, che nella gran parte dei casi non ha speranza di essere riequilibrato né dal senso critico, né da volontà politiche, né da alcuna visione da parte di chi rappresenta le istituzioni. Nella stragrande maggioranza dei casi, questo personale politico ha fatto del realismo un feticcio tale da averlo trasformato in tabù. Ed è spesso rappresentante di un elettorato il quale, nonostante quotidianamente si srotoli davanti ai suoi occhi lo spettacolo di città disegnate a uso e consumo di chi deve farci profitto sopra, è assuefatto a sua volta al tabù-realtà. Ecco com’è che succede che la realtà, diventata tabù, non cambia mai.
Per capire cosa è successo – oltre alla perdita di visione generale di una classe politica cui i poteri economici consentono di giocare al potere per il potere lasciando ben pochi margini sostanziali – si può fare riferimento ai dati del ministero dell’Interno sui trasferimenti erariali e l’attribuzione di risorse da parte dell’amministrazione centrale nei confronti dei comuni. Per semplicità prenderemo il municipio di Perugia: la sostanza per gli altri non cambia. Nel 2003 arrivavano 41,8 milioni nelle casse di Palazzo dei Priori. Dopo venti anni, nel 2023, la mole di risorse si è ridotta a 37 milioni. Quasi cinque milioni in meno. Di qui le lodi cantate dei sindaci quando in cambio dell’edificazione dell’ennesimo centro commerciale riescono a ottenere in cambio qualche briciola: una rotonda, la risistemazione dei marciapiedi nei pressi dell’area, la bitumatura del fondo stradale. Si tratta di concessioni minime che i grandi player hanno risorse in quantità per soddisfare, e per le quali le amministrazioni sono invece pronte a concedere in cambio ettari da cementare.
Perché abbiamo definito tutto questo un vero e proprio modello di sviluppo? In primo luogo perché i numeri cui abbiamo fatto riferimento dicono questo. E ciò accade nonostante non ci sia nessuno che si presenti alle elezioni con un programma che preveda più centri commerciali. Questo è l’aspetto (o se si preferisce, l’ipocrisia) che rende la questione aggrovigliata. Se ci fosse un partito del sì alle aperture indiscriminate e uno del no, l’argomento diventerebbe terreno di confronto. Ma quello della cementificazione da parte delle grandi catene commerciali è diventato un tema simile al razzismo: non c’è nessuno che si schieri apertamente a favore, vista l’enormità della questione, eppure il fenomeno scorre, anzi scorrazza all’interno dell’opinione pubblica e dei suoi rappresentanti, e ciò contribuisce alla costruzione non solo edifici ma anche di immaginario. Così, se nessuno si dirà favorevole a più centri commerciali, supermercati e costruzioni affini, nel momento in cui si dovrà scegliere se cementificare per realizzare un supermercato oppure no, si troverà di certo chi canterà le lodi di un investimento che porterà sviluppo, lavoro e benessere per il territorio. C’è un secondo ordine di ragioni, che porta a definire quello delle continue aperture di grandi superfici commerciali un vero e proprio modello di sviluppo. Siti di quel tipo, prevedono lo spostamento di un gran numero di persone in auto private, grandi superfici da dedicare a parcheggi e quindi da sottrarre a uso pubblico; un modello di consumo che privilegia produzioni distanti centinaia di chilometri dai luoghi di vendita con conseguenti costi ambientali ed economici per il loro trasporto e per di più a detrimento delle produzioni locali; e, infine, un rapporto tra grandi marchi e produttori di merci del tutto – ancora una volta – squilibrato a favore dei primi. Tutto questo disegna un modo di consumare, produrre, muoversi, costruire, vivere gli spazi. Come definirlo, se non modello di sviluppo, per di più imposto, di fatto, in maniera da farlo passare come naturale?
Lo squilibrio di potere economico, la progressiva e in parte conseguente regressione autoreferenziale della rappresentanza politica, la stessa mancanza di consapevolezza di parte dell’elettorato assuefatto alla realtà per come gli si para davanti sono tutti elementi che congiurano per il consolidamento di rapporti in cui l’interesse generale, ancorché non lo si avverta – poiché il tutto è ammantato sotto coltri di retorica e lezioncine da bignami di economia che distorcono l’immaginario – viene stritolato. Un esempio può aiutare a capire e spiazzare: se chiedessimo agli alunni di una scuola di qualsiasi ordine e grado e/o ai residenti di un quartiere privo di parchi come si potrebbe riqualificare l’area pubblica di un ex mattatoio o mercato ortofrutticolo in disuso, di certo la realizzazione di un supermercato sarebbe l’ipotesi meno gettonata. Se la stessa operazione la si lascia condurre a sindaci e assessori presi solo da se stessi e da chi ha milioni da investire per farli ritornare con gli interessi trasformando a proprio vantaggio pezzi di città, l’esito è scontato. Varrebbe la pena provare a chiedere alle persone che vivono i posti, come li vorrebbero, e trovare le risorse per trasformarli in base all’interesse davvero generale. La realtà, forse, comincerebbe a cambiare.
Foto di Bruce Mars da stocksnap.io
La trasformazione del modo di produrre investe anche il modo di commerciare. I negozi di prossimità a breve non esisteranno più schiacciati da tre elementi: costi di gestione, commercio online, Grande Distribuzione Organizzata. Questo comporta comunque una certa concorrenza di cui tutti ne beneficiano.
Occorrerebbe anche approfondire i due temi sopracitati oltre alla tematica urbanistica, il modo come si sviluppano grandi superfici o si convertono aree esistenti.
Sì, rilievi fondatissimi. Il focus dell’articolo però è più che altro su come gruppi con una notevole forza economica siano in grado di “disegnare” le città, che sono spazi pubblici per eccellenza, secondo le loro esigenze, che non coincidono del tutto con quelli generali. Su questo aspetto le città, le loro amministrazioni, i loro residenti possono fare qualcosa, se prendono coscienza delle questioni. Sul modo di produrre le città hanno margini minori, anche se favorire le produzioni locali si può, si potrebbe. Grazie per l’attenzione.