Non entreremo nel vorticare di spifferi, tentativi di interpretazione e mezze dichiarazioni anonime che danno adito ai numerosi articoli e retroscena che in questi giorni stanno tentando di dare conto del processo di formazione della nuova Giunta regionale. Una delle lezioni di Peter Laufer, teorico del giornalismo lento, è quella di evitare di seguire gli eventi nel loro svolgersi e attendere invece il loro consuntivo. Perché è quello che davvero conta.
Ci sono però delle tendenze consolidate da un lato e delle aspettative piuttosto diffuse dall’altro, nonché delle necessità storiche, che può essere utile incrociare per arrivare a definire quelle che potrebbero essere le caratteristiche salienti di un esecutivo all’altezza dei tempi.
Gli equilibrismi
Le tendenze consolidate – che quanto più sono consolidate tanto più appaiono per ciò stesso di buon senso anche se non lo sono – rimandano a equilibrismi in base ai quali nella formazione del governo regionale si dovrebbe tenere conto dei voti raccolti dalle persone elette nell’Assemblea legislativa, del peso dei partiti, della rappresentanza territoriale, e di quella di genere. L’ultimo punto è sicuramente una questione aperta. Sul primo invece ci siamo già espressi sostenendo concetti che possono essere utilizzati in parte anche per la questione della rappresentanza territoriale. Cioè, riassumendo: tanti voti per essere eletti in Consiglio non conferiscono alcun diritto a entrare in Giunta, e la rappresentanza, anche quella dei territori, è garantita dalla presenza nell’Assemblea, che è appunto l’organo rappresentativo dell’elettorato, seppure nell’immaginario collettivo è retrocesso a una sorta di appendice dell’esecutivo a causa della sbornia maggioritaria. Sul peso dei partiti, occorre notare che nonostante la pubblica opinione veda quelle organizzazioni ed esse si comportino come se si fosse ancora negli anni settanta-ottanta del secolo scorso, quando cioè mantenevano un legame di qualche tipo con le componenti sociali e tentavano di esserne la traduzione istituzionale, oggi siamo di fronte a un fenomeno diverso, che a guardarlo come se fossimo in un altro tempo, dà luogo a interpretazioni distorte. I partiti oggi vanno assomigliando sempre più a comitati elettorali – non di rado addirittura a confederazioni di comitati elettorali – e questo li rende fortemente menomati nella capacità di rappresentare pienamente alcunché. Certo, nel gioco dopato dei pesi elettorali e delle rivendicazioni che si fanno nelle riunioni ristrette, tutto acquista un senso; poi però, nella vita reale, nella società reale, i partiti – tutti insieme – rappresentano oggi un cittadino su due, visto che l’altro rimane a casa quando si vota. Prenderne atto – piuttosto che giocare al novecento aiuterebbe ad affrontare la realtà di oggi, non quella del secolo scorso. Peraltro, entro certi limiti, i partiti in Umbria, almeno quelli della coalizione che ha vinto le Comunali di Perugia e le Regionali, hanno mostrato di aver compreso di non essere abbastanza: nessuna delle candidate che hanno permesso alla coalizione di vincere ha tessere di partito in tasca né una vita pregressa all’interno dei partiti: non è un caso. Poi però, una volta vinte le elezioni, si nota sempre da parte di quegli stessi partiti il rischio di cedere alla tentazione di tornare a giocare al novecento.
Le aspettative e la realtà
In gran parte dell’elettorato – tanto di qua quanto di là – e probabilmente anche in chi rimane a casa quando si vota c’è una diffusa richiesta di discontinuità. Ciò deriva dalla percezione – magari ancora confusa, non del tutto messa a fuoco – che le tendenze consolidate di cui sopra siano state in anni passati la causa dell’attuale intrappolamento nella palude e siano oggi il principale ostacolo alla possibilità di uscirne.
La necessità di adattarsi all’emergenza climatica e di prevenirne almeno gli effetti peggiori; una monumentale questione sociale in cui si impastano nuove povertà (nuove nel senso che oggi anche chi lavora rischia la povertà, cosa che nel novecento non accadeva), un precariato che più che diffuso ormai è diventato capillare, solitudini e invecchiamento della popolazione; interi pezzi di regione che si spopolano a causa dell’essiccamento dell’offerta di servizi decenti; la tendenza di fasce di popolazione sempre più ampie all’abbandono della cura di sé o all’abbraccio della sanità privata; l’esigenza di ritrovare un ruolo del pubblico efficiente e adatto alla contemporaneità in un’economia lasciata pilatescamente e dogmaticamente in mano alle imprese private che sono le sole a creare ricchezza, come recita la litania stantia che nasconde e si nasconde che in Umbria le imprese private – storicamente – pagano meno, innovano meno e scontano un ritardo epocale in termini di produttività rispetto alla media; il bisogno di sfruttare la tecnologia per realizzare infrastrutture immateriali e ipotizzare l’inedito che esse oggi mettono a disposizione, piuttosto che riempirsi la bocca di inglesismi che nascondono vuotaggine pragmatica; la liberazione dal paradigma grandeoperistico, talmente anacronistico da essere diventato grottesco, in favore di uno straordinario processo di riqualificazione, cura, sutura capillare che coniughi qualità della vita e salubrità dell’ambiente. Sono alcune delle partite che un’amministrazione appena decente (tanto nella sua parte esecutiva, quanto in quella legislativa) oggi dovrebbe attrezzarsi per giocare. Di fronte a una scalata del genere, baloccarsi in equilibrismi fuori tempo massimo ha davvero poco senso. E rischia di deludere pesantemente parte dell’elettorato che ha dato fiducia a chi ha vinto, che ha votato sì per bloccare quelli di là, ma anche per cercare una via d’uscita dalla palude.
Se le partite sono ineludibili e inedite, se le rappresentanze sono diventate insufficienti, come uscirne per definire un esecutivo all’altezza? Servono tre qualità, che dovrebbero caratterizzare le persone che ne faranno parte e il sistema complessivo cui esse daranno vita. 1) La competenza nelle materie che si vanno a trattare: non è che solo perché si sono presi migliaia di voti per essere eletti in Consiglio si possa andare a fare l’assessore/a alla qualunque; 2) la capacità di immaginare altri percorsi e altri approdi rispetto a quello che si è fatto finora, non tanto per soddisfare lo sfizio di fare cose nuove, ma perché le partite di cui si parla sono di uno sport diverso rispetto a quello che si è giocato finora; 3) l’umiltà e la capacità di cercare risorse anche nell’intelligenza diffusa che sta al di fuori della rappresentanza istituzionale, delle cui insufficienze si è detto abbastanza. La capacità di saperci dialogare per incamminarsi faticosamente fuori dalla palude anacronistica nella quale ci troviamo. Ecco, potrebbero essere questi al tempo stesso i parametri in base ai quali formare il nuovo esecutivo, e quelli per giudicarlo da parte nostra una volta che sarà formato: si tratta di priorità che spazzano via gli equilibrismi anacronistici allo stesso modo in cui il vento soffia via la nebbia.
Complimenti. Analisi lucida intelligente e di visione. Linguaggio essenziale ma al contempo illuminante su prospettive altre rispetto allo stantio quotidiano. Sempre interessante da leggere specie nel tentativo di risvegliare la possibilità silenziata di legare le intelligenze diffuse