Una panchina sulla spiaggia
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Lo svuotamento della democrazia

 

Per quanto la si possa camuffare, per quanto la si possa edulcorare, per quanto la si possa stravolgere a manate di propaganda e gomitate di demagogia la realtà delle cose, ben diversa dalla verità di ciascuno, ci restituisce uno stato di crisi profonda delle democrazie, involute nelle forme e smarrite nella sostanza. La contemporanea presenza al governo delle destre, che non si sono perse, ma radicalizzate, a ogni latitudine (Usa, Israele, Europa), la loro tendenza a pretendere mano libera a livello istituzionale, con una sorta di teocrazia del potere esecutivo accompagnata dalla dismissione di ogni forma di contrappeso, e il loro indissolubile legame, che negli Stati uniti si è fatto coincidente, con il grande capitale che la mano libera la pretende a ogni livello e in ogni dove, sta progressivamente smontando l’architettura democratica basata sui concetti di limite e di equilibrio. Erodendone le fondamenta, coadiuvati da una sovranità popolare emersa dalle urne, queste destre stanno pian piano trasformando il governo dei tanti in regime dei pochi e la casa delle regole comuni in cortile del controllo imposto agli altri e non valido per sé.

Lo fanno, e qui sta il vero capolavoro politico-comunicativo, in nome e per conto della supremazia dei valori occidentali. Distruggono la democrazia per far trionfare la democrazia, in poche parole. Gli indizi che vanno oltre gli indizi per trasformarsi in prove provate tagliano la fisica del potere in lungo e in largo non lasciando spazio alcuno al dubbio, così si va dall’aspetto micro incarnato dall’italico decreto sicurezza (paradigmatico ed esplicativo nel render conto della tutela di sé (governo-stato) e nel manifestare la disciplina da riversare sull’altro (moltitudine che occupa e protesta), per arrivare al macro incarnato dalla guerra come garante ultimo di egemonia (Usa, Israele, riarmo generalizzato, e quanto altro ancora).

La guerra dichiarata da Trump al capitalismo globalizzato del post-maoismo di Pechino attraverso l’agitazione strumentale dell’arcaico sistema dei dazi a cui il partito stato di Xi Jinping ha invece risposto pan per focaccia, ha come sfondo la muscolarità dell’armamentario militare, vero e proprio jolly nelle mani degli Stati uniti per riuscire a conservare un’egemonia che sta venendo ogni giorno meno. Qui non si distrugge la democrazia per far trionfare la democrazia, ma molto più linearmente con la pratica storica dell’imperialismo si mettono in discussione le regole base del capitalismo globalizzato (merci e capitali liberi di viaggiare e riprodursi) per ricordare al mondo intero che infine è l’uso della forza (militare) a decidere le sorti di ogni disfida.

Il potere americano incarnato dal capitalismo americano (figlio dei meccanismi globalizzati) per tornare a esser grande fa la voce grossa ben sapendo di non aver alcuna speranza di uscirne vincitore se non con lo spettro della guerra senza fine. La dualità manichea bene-male democrazia-autocrazia sembra scambiarsi i ruoli in un gioco perverso in cui la stabilità dello status quo viene garantita dalla tentacolarità logistico-economica cinese e la sua messa in discussione dall’eterna brama di potere statunitense.

Ovviamente in questo quadro fatto di tinte forti e demarcazioni nette è la logica del profitto a rendere tutto maledettamente più sfumato e complesso, perché se è lecito che la democrazia possa uccidere se stessa, è assolutamente rischioso far morire la catena di estrazione del valore, seppur sostituendola con un’altra. Così l’imperio d’annuncio si alterna alla retromarcia del contro-annuncio, l’imposizione fa staffetta con la sospensione, il senza se e senza ma ricorre all’espediente del tutto è possibile. I mercati fatti di suscettibilità e frenesia polverizzano e rigenerano miliardi, le valute tornano in stato di guerra permanente per assurgere al ruolo di parametro di riferimento, i risparmiatori tremano, gli speculatori bramano.

All’interno della psicosi collettiva che sovrana scandisce tempi e ritmi di un capitalismo in turbolenza, non poteva mancare la commedia all’italiana incarnata dal protagonismo scenico e scodinzolante della nostra premier, che fa spola sorvolando l’oceano Atlantico alla ricerca di una visibilità votata non più al semplice successo, ma al trionfo assoluto. Se non ci saranno dazi sarà per lei, se Usa ed Europa continueranno a essere Occidente unito e diversificato sarà per lei, se la pace in Ucraina sarà giusta sarà per lei, un se che sarà, un condizionale che divora il futuro mistificando teatralmente il presente, con la fedele propaganda armata allestita anni fa dal cavaliere di Arcore pronta a trasformare lo squillo di tromba in tripudio di fanfara.

E noi qui impotenti e soggiogati, spaventati e umiliati, storditi e frastornati, pronti a ingurgitare ogni frottola, disposti a tollerare ogni sopruso, certi di poter riversare l’accumulo delle frustrazioni indotte dall’alto contro le più svariate forme di debolezza che la provvidenza salvifica ci mette a disposizione con tempestiva reattività.

Foto di Håkan Dahlström

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