La corsia di un supermercato
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L’anima smarrita della cooperazione di consumo

 

C’è un non detto nella vicenda che riguarda Coop Centro Italia, la sua fusione con Unicoop Tirreno, la sua trasformazione di Unicoop Etruria. Esaminarne i risultati economici, le performance di bilancio, l’andamento delle vendite, l’incremento dei costi, in un implicito confronto con le altre insegne della Grande distribuzione organizzata (Gdo), ci descrive solo una parte dei problemi. In tal modo, vediamo questa impresa come una insegna della Gdo tra le altre. Ma la cooperazione di consumo, cioè l’aggregazione di singoli consumatori in forma cooperativa per tutelare potere d’acquisto, qualità dei consumi, salute, e (persino) ambiente ha una sua peculiarità e una sua radice storica, che la rende irriducibilmente diversa da ogni altra società distributiva.

Se viene naturale guardare questa esperienza cooperativa a partire dal conto economico e dallo stato patrimoniale c’è una ragione precisa. Questo movimento ha fatto di tutto per cancellare le sue radici e per omologarsi al resto del mondo distributivo, rimuovendo quella peculiarità. La cooperazione di consumatori è stata letteralmente ossessionata negli ultimi decenni a rincorrere la Gdo sul suo terreno, quello del dominio incontrastato delle logiche di mercato, del consumismo acritico, indifferente alle implicazioni economiche, sociali e culturali del modello di consumo dominante. Il centro di questo modello è il supermercato. I supermercati sono tutti uguali. Seguono tutti la stessa logica della sovrabbondanza, della opulenza, dello sfavillio delle luci, del potere dell’aspetto esteriore, del predominio incontrastato del calibro delle mele, della industrializzazione del cibo. Il supermercato lascia fuori il disastro ambientale, l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento del lavoro che tale modello di consumo porta con sé . Tutti uguali, nessuna postura critica, nessun tentativo di costruire alternative.

Ciò che rende irriducibilmente diversa la cooperazione di consumo è la proprietà. Quella tessera che viene consegnata, al “costo” di 25 euro, a coloro che vogliono usufruire pienamente degli sconti che il supermercato Coop offre è, in realtà, l’attestato di partecipazione alla compagine sociale della cooperativa. Ma nessuno lo spiega. E la responsabilità della mancata spiegazione non è certo dell’addetto che consegna quella tessera. Quella tessera diviene l’equivalente di una delle tante carte sconto, da presentare alla cassa, di cui sono pieni i portafogli dei consumatori. E così, anche per questa via, il principale elemento di differenza tra una cooperativa ed una qualunque società di capitali viene occultato. Il potere decisionale è nelle mani del management. La proprietà, o meglio la sua rappresentanza, conserva sì poteri formali, ma l’asimmetria di informazioni e di conoscenze è tale che il controllo reale è nelle mani dei manager. Del resto, la rappresentanza della proprietà è scelta da un numero modestissimo di soci e questo rende i meccanismi di selezione suscettibili a dinamiche di reciproco sostegno tra gruppi piuttosto ristretti di soci e manager. Anche il meccanismo di selezione del management è sempre più condizionato dalla ricerca sul mercato di tecnici provenienti da altre insegne, che nulla sanno e nessun legame hanno con la dimensione valoriale e sociale della cooperativa. Sono tutti aspetti di un unico processo: l’omologazione della cooperativa ad una qualunque società di capitali che opera nel settore della grande distribuzione. L’elemento distintivo, i consumatori proprietari, è completamente accantonato, e da punto di forza diviene elemento di debolezza perché viene meno la risposta al quesito chi risponde a chi?

Il tema è da tempo squadernato dinanzi alla cooperazione di consumo, senza trovare convincenti soluzioni. Anche l’introduzione di un sistema duale, con un consiglio di sorveglianza espressione dei soci e un consiglio di gestione composto dal management, laddove sperimentata, non ha prodotto alcun rilevante cambiamento. Eppure, nel panorama delle trasformazioni socio – culturali contemporanee, si sarebbe potuta cogliere una vena nuova, tale da portare nuova linfa ad una esperienza sempre più esangue. Questa vena nuova, nel tempo che viviamo, del passaggio da cittadini a clienti consumatori, è l’area del consumo critico. Colpisce che la cooperazione di consumo organizzata nelle grandi centrali cooperative sia rimasta del tutto impermeabile a fatti nuovi come i gruppi d’acquisto solidali, i mercati a km zero, l’economia circolare e la riscoperta dell’usato, la crescita del consumerismo.

Tutte le insegne, in realtà, soprattutto in campo ambientale, assai meno in quello sociale, hanno in qualche modo cercato di mostrare una nuova attenzione. Parecchio greenwashing, a dirla tutta. Proprio per questo la cooperazione di consumo si sarebbe dovuta spingere più avanti e aprirsi risolutamente a nuovi soggetti sociali che, a partire da una critica alla configurazione attuale del mercato distributivo, allo strapotere delle grandi imprese, ai negativi risvolti ambientali e sociali della produzione dei beni di consumo, chiedevano e chiedono concrete sperimentazioni di cambiamento.

Nel 1978, il primo supermercato della Coop, a Terni, fu aperto al Villaggio Matteotti progettato dall’architetto De Carlo per dare un servizio ai lavoratori della società Terni che avevano acquistato quegli appartamenti di edilizia popolare. La decisione fu presa al consiglio di fabbrica delle Acciaierie, da dirigenti sindacali, soprattutto della Fiom: Ettore Proietti Divi, Alfio Paccara, Marino Elmi. Quest’ultimo si occupò di promuovere una riuscitissima raccolta firme tra gli abitanti del quartiere perché l’amministrazione comunale concedesse l’autorizzazione all’apertura del negozio. Queste sono le radici della cooperazione di consumo, peraltro raccontate con rigore storico e dovizia di particolari in una ricerca finanziata e pubblicata, anni fa, proprio con il sostegno di Coop Centro Italia. Ritrovarle, tali radici, nelle forme nuove che hanno assunto nei tempi che viviamo, sarebbe il cimento in cui mettersi. Se non è troppo tardi, se c’è qualcuno disposto a crederci.

2 commenti su “L’anima smarrita della cooperazione di consumo

  1. È il tragico inviluppo della sinistra degli ultimi 40 anni: le Coop non sono più cooperative di consumatori, il PD non è più il partito del popolo lavoratore, i sindacati non sono più i difensori dei lavoratori.

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